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Ancora dopo ottant’anni, i ricordi della guerra sono un incubo che non vorrei affatto rivivere

Ancora dopo ottant’anni, i ricordi della guerra sono un incubo che non vorrei affatto rivivere

LETTERA AL GIORNALE Caro direttore, le avevo scritto che non accettavo di sostenere la pandemia e la guerra, perché ho subito l’ultima guerra fino all’età di 9 anni. Ricordo come fosse ieri i tristi e drammatici episodi di quel periodo: uno, in particolare, che mi turba ancora dopo circa 80 anni. Eravamo a Savona trasferiti da Trento, viaggiando sul camion del trasloco. Mio padre preferì vivere in una villetta con giardino in periferia perché il palazzo scelto precedentemente era troppo vicino alla ferrovia con maggior rischio di bombardamento.

La villa era di due piani con un’ampia cantina, che venne valutata come possibile rifugio, purché proteggessimo i finestrini con sacchi di sabbia e i vetri incollando strisce di carta. Quando suonava la sirena si scendeva in cantina insieme con la famiglia della casa vicina. Una notte, il bombardamento fu più aggressivo del solito, una bomba cadde nelle vicinanze. A causa dello spostamento d’aria la nostra casa fu scossa violentemente, i finestrini della cantina nonostante fossero sprangati, si spalancarono e i sacchi di sabbia posti sul davanzale furono lanciati a terra frantumandosi.

La candela si spense, e vi fu un grido unanime di terrore, che un nostro vicino, un tenente degli Alpini, reduce dalla campagna di Albania, soffocò a suon di bestemmie. Suonata la sirena di fine incursione, ritornammo nei nostri letti, tentando di dormire. L’indomani mattina, mio fratello e io andammo a vedere l’effetto di quella bomba: aveva colpito una villa come la nostra circa trecento metri da noi. Tutto era stato polverizzato, rimaneva il pavimento decorato del piano terreno intatto, pulito come se lo avessero preparato per utilizzarlo come una “balera”. Nessuna traccia di calcinacci, mattoni, infissi. Era rimasto solo un alberello scheletrico, con impigliati nei rami i capelli neri lunghi di una donna e una scarpa dal tacco alto: null’altro, questo ci bastò per fuggire terrorizzati da quel luogo.

Ritornammo a casa sconvolti. I miei genitori decisero subito di sfollare a Monforte, meglio ai Manzoni, vicino alla stazione ferroviaria di Monchiero, da dove mio padre ci raggiungeva a fine settimana. Linea ferroviaria già esistente, sostenuta dal presidente Einaudi, oggi lasciata in colpevole abbandono. Qui la guerra cambiò aspetto, fu quella ben descritta da Beppe Fenoglio. Potrei raccontare altri episodi altrettanto tragici, come quando mio fratello, più vecchio di me di 6 anni, disse sconsolato a mia madre: «Ma mamma, questa sera non abbiamo mangiato niente!». Mia madre non rispose. Questa è la guerra che io ricordo con fin troppa lucidità, e che oggi non voglio più sentire e vedere. Allora si voleva imporre la volontà di un popolo applaudente, oggi gli schermi televisivi impongono uno spettacolo senza limiti e censure dove una propaganda bilaterale finisce per alimentare una scellerata tifoseria a stimolare la curiosità come in un video-game.

Un lettore della tifoseria si chiederà se sono per Putin. In verità, per la mia età, sono nella situazione di quella vecchietta riportata tra gli aneddoti riferiti al tiranno di Siracusa, Dionisio, ricordati forse da Cicerone o Plutarco. La vecchietta pregava continuamente perché il tiranno vivesse a lungo e rimanesse illeso da ogni attentato. Fu interrogata per quel comportamento poco ortodosso. Allora rispose: «Quando ero fanciulla ho augurato la morte ai tiranni precedenti, poi mi sono accorta che quelli che seguivano erano peggiori dei primi. Ora prego per la sua salute, per evitare la venuta di un tiranno peggiore».  La vecchietta venne giustificata anche dallo stesso tiranno Dionisio.

Alfio Mastroianni, Monforte d’Alba

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