Capolicchio, il primo Ettore in televisione

IL PERSONAGGIO «Il cartonaccio del cinematografo non lo leva più nessuno di là dentro». Queste parole di Elio Vittorini corrispondono, nel settembre del 1951, a una prognosi infausta. «Là dentro» è il corpo de La paga del sabato, quello che sarebbe potuto essere il primo romanzo (forse, per qualche momento, addirittura il primo libro) di Beppe Fenoglio, e che alla luce della sentenza del suo editore fu invece retrocesso a blocco grezzo, non raffinabile nel suo insieme, da cui estrarre due soli racconti. Colpisce l’espressione «cartonaccio»: dà l’idea del libro come di cosa poveramente mascherata, gonfia di fibre degradate. Una polpa che nessuno mai avrebbe osato ostentare come pulp: in quel 1951, La paga del sabato, con il suo scomodo sottobosco criminale, era stata intaccata senza speranza (secondo il giudizio di Vittorini) dai cliché più ovvi e rifatti dei film americani di gangster.

Colpisce ugualmente come, nel 1969, quando La paga del sabato esce postuma circondata dall’entusiasmo della riscoperta, il cinema ritorni, ma a dare una imbottitura decisamente meno vile. Sono passati diciott’anni, ma è un’altra epoca: e Fenoglio è diventato Fenoglio, il rimpianto autore del sorprendente Partigiano Johnny. Nel risvolto di copertina del Supercorallo Einaudi il protagonista Ettore può ora esser presentato come un «piccolo Humphrey Bogart di paese»; e negli strilli pubblicitari, il romanzo è definito una «gangster story», senza vergogna e con un calcolato ammiccamento al fresco successo del film di Arthur Penn (1967) con Warren Beatty e Faye Dunaway (ecco pronto un casting à la page per i personaggi di Ettore e Vanda). E à la page diventa anche il libro, che compare in un film di Alberto Sordi (Il Prof. Dott. Guido Tersilli…). Chissà Vittorini (che sarebbe troppo ingiustamente facile demonizzare), cosa ne avrebbe detto: anche lui morto, prematuramente, tre anni prima.

Capolicchio, il primo Ettore in televisione
Lino Capolicchio con la mamma di Fenoglio, Margherita

Abbiamo ripensato a queste cose, sentendo nei giorni scorsi della morte, a 78 anni, di Lino Capolicchio: attore che qualche necrologio, negli inevitabili elenchi, citava correttamente anche come interprete di Ettore nello sceneggiato televisivo diretto da Sandro Bolchi, girato in Alba e dintorni sul finire del 1976 (andrà in onda in due puntate nel novembre 1977, su Rai Due). Un attore fuori canone, Capolicchio, segreto e sottile, prontamente ricordato per la collaborazione con De Sica ne Il giardino dei Finzi Contini. E poi per il lungo sodalizio con Pupi Avati. E la televisione degli sceneggiati che non si chiamavano ancora fiction, come il Conte di Montecristo e appunto La paga del sabato: che così, alla fine, aveva dato materia, polpa, al cinema. E potrebbe benissimo darne oggi, se qualcuno volesse pensarci seriamente: per trarne un film più secco dello sceneggiato bolchiano, documento di un certo prodotto televisivo dei suoi anni (come le sintomatiche musiche di Mario Bertolazzi), con il gran pregio delle riprese fuori studio. Per noi locali, resta un campionario di ambienti e scorci oggi ripuliti e perduti (casa Fenoglio compresa), da unire agli scatti in bianco e nero di Bruno Murialdo, accreditato fotografo di scena.

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Lino Capolicchio nel ruolo di Ettore.

Sortendo un effetto in fondo straniante, Bolchi (con lo sceneggiatore Giorgio Arlorio) aveva però spinto troppo sulle allusioni cinematografiche, rivestendo la stanza di Ettore di fotografie (enormi, incongrue) di divi di Hollywood. Esaltato come un teenager, il giovane reduce partigiano elogia le gambe della sua Vanda (Jenny Tamburi), superiori a suo dire a Betty Grable; scherza col ritratto di Clark Gable, e tra Mae West e Gene Tierney ha appeso al muro lo stesso Bogart. Che da Capolicchio è esplicitamente mimato, ricalcato, nell’accendersi una sigaretta sotto le note di As time goes by (la canzone di Casablanca). Il risvolto del libro è preso troppo alla lettera, e, forse anche per colpa di Woody Allen, non riusciamo a non sentire un retrogusto di parodia. Ma Capolicchio, per via di quel suo indefinito mistero sotto i tratti di finezza, nella sua stagione dorata sullo schermo, riusciva, riesce, comunque a salvarsi.

 Edoardo Borra

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