Il rapporto di Antigone condanna il carcere Montalto

Tutto tace sul destino del carcere albese
Il carcere Montalto di Alba

ALBA La casa di (non) lavoro: si intitola così il diciottesimo rapporto di Antigone, realtà attiva da fine anni ’80 nel campo dei diritti dei carcerati. Ogni anno la Onlus, che annovera fra gli attivisti anche magistrati, operatori del settore e insegnanti, redige un rapporto sulle condizioni di detenzione, incrociando dati ufficiali e visite: il 4 aprile un gruppo di esperti è stato al Montalto e ha dedicato, nelle pagine del rapporto, un approfondimento che traccia un quadro allarmante per il penitenziario.

La struttura dallo scorso giugno è una casa di lavoro, realtà retaggio del codice penale fascista: in Italia ce ne sono pochissime e ospitano poco più di 300 internati. Vi si trovano quanti, per avendo scontato la loro pena, vengono ritenuti pericolosi per la società: tossicodipendenti, psichiatrici e persone con un profilo complesso; la loro permanenza in cella viene rinnovata per brevi periodi, una condanna a vivere nel limbo piuttosto che a reinserirsi col lavoro.

Scrivono Rosalba Altopiedi, Daniela Ronco e Giovanni Torrente, gli estensori del documento: «La casa di lavoro è sempre apparsa anacronistica, la visita alla realtà di Alba offre un quadro concreto di uno spietato non senso». I relatori sostengono di aver trovato «gli internati rinchiusi entro due piani detentivi, in un contesto dove le persone occupano i corridoi delle sezioni, esprimendo le più svariate forme di disagio».

Emerge poi il problema degli spazi esterni, molto ristretti, e interni, «pressoché inesistenti, a parte alcune aule scolastiche al secondo piano e tuttavia chiuse». La struttura si è adeguata con due container, posti tra l’edificio e il muro di cinta.

Circa le opportunità lavorative, il territorio potrebbe offrirne, tuttavia «l’inaffidabilità delle persone internate rende impossibile ogni attività basata sull’utilizzo di pale, mazze o oggetti appuntiti». Il Montalto viene descritto come «un’istituzione di scarico, per contenere quell’umanità ritenuta inaffidabile in ogni contesto, anche in carcere: sono soggetti di cui tutti i servizi pubblici e spesso le famiglie di appartenenza hanno cessato di occuparsi».

L’abbandono è evidente considerando l’assenza di un servizio giornaliero di guardia medica; lo psichiatra poi è presente una volta alla settimana. Secondo i relatori: «Il luogo peggiora le problematiche degli internati, malgrado la buona volontà degli operatori, impegnati a limitare i danni. La visita ad Alba spinge a interrogarsi sul senso di una giustizia che rinchiude soggetti problematici, all’interno di una cornice che ricorda le esperienze manicomiali, senza alcuna prospettiva».

Mancano soldi: al lavoro solo due degli oltre 40 detenuti

Giovanni Bertello è il direttore tecnico del progetto agricolo del penitenziario Montalto di Alba: con le uve prodotte dall’ettaro di vigna attorno all’edificio nasce, grazie all’aiuto della scuola enologica cittadina, il vino Vale la pena. Il progetto, però, a causa dei pochi fondi disponibili vive momenti di difficoltà: «Fa male vedere come viene trattata un’occasione di rinascita per chi si trova in carcere». Dal 2005, Bertello si occupa anche del corso di operatore agricolo, organizzato dalla Casa di carità arti e mestieri di Torino. «Per molti dei carcerati iscritti si è rivelato un’occasione di ripartenza». Per la prima volta da quando è stato avviato, però, il percorso non è stato attivato: «Non abbiamo raggiunto le adesioni minime, otto persone, richieste per i fondi regionali. Dieci internati lo hanno già frequentato nel 2021 e non possono ripeterlo, manca la platea a cui rivolgerci».
L’interesse è poco, «la permanenza in casa lavoro, poi, viene confermata dal giudice a intervalli regolari e l’arco temporale non è certo, come in carcere».
Si dovrebbe almeno permettere di lavorare a quanti hanno seguito le lezioni, ma non è così: «Su dieci persone, solo due sono occupate, per tre ore al giorno, gli anni passati erano otto: così rischiamo di vanificare quanto costruito».
Assieme a Bertello e due internati ammessi al lavoro ci sono «alcuni agenti volenterosi a portare avanti l’attività. Non so quanto potremmo durare: la terra va curata costantemente». Lo scorso anno è stato anche siglato un accordo con l’azienda agricola Castello di Perno: due posizioni per altrettanti internati, «ma in questo momento nessuno degli ospiti è stato destinato a incarichi esterni». Conclude Bertello: «Tutti mi chiedono di lavorare,ma è difficile non poter dare loro risposte concrete».

Un penitenziario dimenticato da tutti

La grave situazione della casa di lavoro di Alba, portata alla ribalta da Antigone, è ben nota ad Alessandro Prandi, garante comunale per i detenuti.

I contenuti del rapporto di Antigone non sono una novità per lei, Prandi.

«Affatto, al documento aggiungerei un altro dato: al 15 aprile, gli internati erano 43, a fronte di una capienza di 33 posti, con sovraffollamento del 130 per cento. Con Domenico Albesano, presidente dell’associazione Arcobaleno (vedi articolo sopra, ndr), abbiamo scritto una lettera all’amministrazione penitenziaria per chiedere un intervento immediato».

Quali sono le principali problematiche?

«Nella struttura lavorano più di cento agenti, uno sproposito per una quarantina di internati; mancano però professionisti per seguire al meglio le persone affette dai disagi psicologici e psichiatrici. Venendo agli internati, la quasi totalità di quelli formati con la scorsa edizione del corso organizzato con i fondi regionali dalla Casa di carità arti e mestieri di Torino non stanno lavorando al mantenimento del vigneto interno e degli altri spazi coltivati: pare la causa sia da ricercarsi nell’inadeguatezza dei fondi previsti, che sarebbero stati ridotti del 70 per cento rispetto all’anno scorso (gli internati vengono infatti pagati per le ore svolte, ndr). Si rischia di perdere un’attività preziosa; inoltre il lavoro, per i detenuti, è diventato una chimera. Sono stati sospesi anche altri servizi, come la convenzione tra la direzione e le Acli di Cuneo per il patronato e il Caf: così moltissime incombenze ricadono sui volontari».

Uno dei punti sul quale più ha insistito è la mancata attenzione del territorio per il penitenziario.

«La volontà di avviare collaborazioni tra il carcere e le istituzioni albesi è inesistente: al di là dei proclami ufficiali, non si è realizzato nulla di concreto. Alla base c’è, senza dubbio, il totale disinteresse di imprese ed enti verso il penitenziario, tuttavia lo stesso istituto dovrebbe essere più propositivo verso l’esterno. In un’areale come il nostro, con un tessuto sociale così ricco e molte realtà imprenditoriali virtuose è possibile che non si riesca a costruire progetti concreti per quaranta persone che versano in grave difficoltà?».

I volontari di Arcobaleno accudiscono gli internati

Domenico Albesano è il presidente dell’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno. Insieme agli altri volontari, oggi si fa carico di molte incombenze riguardanti gli internati: indumenti, pratiche burocratiche, spese per cure mediche e accompagnamenti all’esterno, in caso di licenze. «La situazione è molto difficile. Queste persone, quasi tutte provenienti da altre regioni – dal Trentino alla Campania –, in molti casi sono bloccati da anni nel limbo della casa lavoro: parecchi si aspettavano di trovare una situazione diversa ad Alba ma non è accaduto».

La rete familiare è del tutto assente: «Spesso si tratta di persone con molte problematiche e di recidivi che non hanno contatti con le famiglie. Hanno bisogno e ce ne facciamo carico: non lavorando, non hanno neppure la possibilità di mettere da parte del denaro. Non so quante chiamate ho effettuato a genitori e parenti, in giro per l’Italia, ma ho sempre ricevuto dei no decisi a ogni forma di aiuto».

L’accompagnamento di chi ottiene una licenza, per poter uscire o svolgere pratiche e acquisti, «è una responsabilità non da poco, ma qualcuno deve pur provvedere», riprende Albesano, «ogni volta mi colpisce constatare la reazione di uomini che tornano a camminare in una città, per qualche ora, dopo anni di isolamento. Il mondo all’esterno, per loro, è quasi una novità: anche solo vedere Alba o entrare in un negozio è sorprendente». Così il ritorno alla libertà perduta, dopo la detenzione, provoca «senso di spaesamento che assieme alla mancanza di contatti rappresenta l’ostacolo più grande al reinserimento».

Conclude Albesano: «Il nostro impegno di volontari è complesso, ma gratificante. Parliamo di persone: non dobbiamo dimenticarcene».

 f.p.

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