Ultime notizie

L’attività dell’ospedale keniota di North Kinangop raccontata dal direttore don Sandro Borsa

L'attività dell'ospedale keniota di North Kinangop raccontata dal direttore don Sandro Borsa

ALBA Da ventidue anni don Sandro Borsa dirige l’ospedale di North Kinangop. In Kenya da quarant’anni, il sacerdote, nato a Padova nel 1949, stasera (giovedì 15 settembre) sarà ad Alba per la serata benefica, organizzata fra gli altri da Gazzetta d’Alba, e dai Lions di Alba, Langhe e Canale. Si tratterà della prima volta, «almeno dal punto di vista fisico. Spiritualmente, è come se ci fossi già stato tante volte, grazie a don Tablino e don Venturino», spiega. «Quando io e altri preti arrivammo in Kenya furono i nostri padrini. Erano ambientati nel Paese: non si limitavano a voler bene ai locali, ma ne conoscevano la cultura e adattavano le proposte religiose alle esigenze delle tradizioni locali». Costoro, «girarono il Nord del Paese muovendosi tra le popolazioni nomadi del deserto. Di recente ho conosciuto il vento e la freschezza di Alba grazie all’incontro con il dottor Frea».

Con quali obiettivi era stato mandato in Kenya?

«Prima dell’ordinazione, il vescovo mi chiese se fossi stato disposto a partire per dove c’era bisogno. Dissi di sì e, in seguito, fui destinato al Kenya. Qui sono stato parroco, poi docente in un centro di formazione e, infine, all’ospedale di Kinangop. Cosa impensabile fino a poco prima: la sola vista del sangue mi faceva svenire. Sono riuscito a portare avanti l’opera del mio predecessore, tuttavia non da solo: siamo sette preti, una ventina di religiosi e religiose, dottori, infermieri, volontari e tutto il personale».

Come nasce l’ospedale di North Kinangop?

«Originariamente era un territorio diviso da una montagna: da una parte c’erano i Masai, pastori, e dall’altra i Kikuyu, agricoltori. Gli inglesi comprarono per poche sterline i campi e costruirono le fattorie. Gli autoctoni non potevano avvicinarsi senza autorizzazione, i coloni sparavano e uccidevano. A partire dagli anni Cinquanta, anche grazie al movimento partigiano Mau Mau, gli inglesi iniziarono ad andarsene. Prima però chiesero al Governo di pagare le case e le opere, costringendolo a indebitarsi con loro. Il presidente Jomo Kenyatta diede l’impulso alla creazione di cooperative per la gestione di fattorie. Prima non c’era nulla, ma nel 1963 già 150mila persone si erano stabilite nella zona. Lo Stato decise di usare le case coloniche per le attività pubbliche e, al vescovo di Nyeri, affidò il compito di avviare un ospedale. Essendo in contatto con i missionari della Consolata di Padova, il vescovo chiese aiuto alla diocesi veneta. All’inizio non avevamo acqua e luce, ma lentamente siamo diventati una struttura di livello elevatissimo. Dobbiamo offrire il meglio della medicina senza accontentarci».

Quanti pazienti ricevete all’anno?

«Circa 70mila persone per visite ambulatoriali, più dodicimila ricoverati. Nascono tremila bambini e quattromila persone sono operate. Promuoviamo la sottoscrizione di un’assicurazione sanitaria nazionale, dal costo fisso di cinquanta euro per famiglia: l’equivalente di mezza pecora o due sacchi di patate. Su questo insisto molto, almeno l’ottanta per cento della popolazione locale potrebbe farla. Per il restante venti per cento, forniamo aiuti economici. Le confessioni religiose gestiscono circa il quaranta per cento degli ospedali kenioti, ma purtroppo molti cittadini e politici ritengono gli unici ospedali degni quelli pubblici. Penso che lo Stato dovrebbe prendere atto delle strutture già esistenti e incentivarle, anche per risparmiare».

Chi vive a Kinangop?

«Principalmente famiglie con un paio di ettari. Coltivano patate, a volte mais, e allevano alcune pecore e vacche. Si mantengono vendendo i prodotti della terra, quasi sempre a mediatori che attuano speculazioni. Con il nostro ospedale cerchiamo di creare posti di lavoro e, allo stesso tempo, mantenerci. Alleviamo bovini, suini e ovini, produciamo patate, latte e insilati. Abbiamo eucalipti e cipressi da vendere, sminuzziamo le pietre per fare ghiaia».

Quali differenze la colpiscono quando torna in Italia?

«In Kenya ci sono tanti giovani con molta speranza, non vaga ma alimentata dal desiderio di vivere e crescere partendo dai pochi mezzi a disposizione. Quando arrivo in Italia, vedo tanti anziani come me, pieni di paura e angoscia. Prevalgono amarezza e disgusto, sintomi di una società vecchia».

 Davide Barile

Banner Gazzetta d'Alba