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Il professor Attilio Scienza al capitolo dei Cavalieri del tartufo ha parlato di viticoltura e cambiamento climatico (VIDEO)

Attilio Scienza: «La genetica fa paura, ma è il progresso»

GRINZANE CAVOUR Il 302esimo capitolo dei Cavalieri del tartufo, denominato della Selezione dei grandi vini dell’Albese, si è tenuto sabato 17 nella sala delle Maschere del castello. Oltre alla conferenza del professor Attilio Scienza, di cui parliamo sotto, si è svolta la cerimonia di investitura dei nuovi cavalieri, officiata dal gran maestro Tomaso Zanoletti. Rientrano ora nel novero Kris Bruyninckx, Annalisa Chiappa, Andrea Filippo Donarini, Arne Dondeyene, Piero Giardini, Olivier Gudin, Paola Marrai, Francesca Negri, Richard Sagala, Pranciskus Aidas Semezys, Inesa Semionova, Francesca Tortoreto e Gido Van Imschoot. Inoltre, ha ricevuto l’investitura onoraria il questore di Cuneo Nicola Parisi. Con l’occasione è stata presentata la 47esima selezione dei grandi vini dell’Albese, con la premiazione delle cantine vincitrici. Tra i 117 in lizza, 93 hanno superato l’esame della commissione di degustazione, corrispondenti a 65 case vinicole. Il prossimo appuntamento sarà il 14 ottobre con il 303esimo capitolo, “della Raccolta”.

Il professor Scienza e la viticoltura del futuro

Il professor Attilio Scienza ha tenuto la conferenza dal titolo “Che gusto avrà il vino del futuro? Come i cambiamenti climatici modificheranno i luoghi di produzione e la composizione dell’uva”. Già presidente del corso di laurea in Viticoltura ed enologia all’Università di Milano e direttore generale dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige, Scienza, nato nel 1945, nonostante la pensione sia giunta nel 2015 non ha frenato la sua attività di ricerca e divulgazione. Autore di 380 pubblicazioni scientifiche, ha approfondito in particolare lo studio dei portinnesti resistenti al cambiamento climatico e del genoma della vite. Nelle ricerche, alla genetica ha affiancato studi di antropologia e storia.

Professor Scienza, perché questo tema?
«Perché è di grande attualità. Il cambiamento climatico lo viviamo ogni giorno, non è una prospettiva ma la nostra contemporaneità. Ho però cercato di dare un’interpretazione diversa al nostro stato d’animo. Viviamo nella paura, da sempre cattiva consigliera, e la tempestività dell’informazione ci porta a conoscere in tempo reale cosa accade nel mondo. Le stesse cose capitavano cinquecento anni fa, ma nessuno sapeva di alluvioni in Indonesia o altre catastrofi. Ora il pianeta è a portata di cellulare, ciò crea una grande inquietudine per il destino, non sappiamo cosa fare. Ho quindi deciso di mostrare com’era il clima nei duemila ani appena trascorsi, costellati di periodi di gran freddo e gran caldo. Proprio come adesso, ma allora erano vissuti in modo meno allarmistico e più fatalista. Non scordiamoci che la localizzazione della viticoltura e le scelte varietali sono il risultato dei grandi cambi climatici, ai quali l’uomo si è adattato e ha cercato di reagire».

Come si ricostruisce la viticoltura del passato?
«Ci sono strumenti come la dendrocrinologia, ma lo si fa soprattutto studiando la storia. E studiando la viticoltura si può studiare il clima. Le temperature, d’altronde, le registriamo stabilmente solo dal Settecento. Per ricostruire il clima del passato ci possiamo basare sul momento della vendemmia in Borgogna. Circa dal 1100, i conventi emettevano un bando vendemmiale, con indicata la data di inizio: in annate precoci faceva più caldo, in quelle tardive più freddo. Inoltre, sappiamo quanti ettari si coltivavano e dove: caldo vuol dire espansione, freddo contrazione. Attorno al 1350, periodo successivo all’optimum climatico medievale, la viticoltura va in crisi. È l’inizio della cosiddetta Piccola era glaciale, che durerà fino al Settecento. Senza però una cesura netta: nell’Ottocento troviamo anni caldissimi e altri molto freddi. Stiamo vivendo un ritorno al passato: prima di quel periodo, ad esempio, i vichinghi chiamarono “terra verde” la Groenlandia. Poi, arrivò un freddo tremendo, iniziarono a gelare i fiumi e anche la laguna veneta: i veneziani, allora, esportarono la Malvasia in tutto il Mediterraneo. La viticoltura scomparve dalle zone montane, la domanda aumentò e si cercarono varietà più produttive: ecco come si persero vitigni di grande qualità, sopravvissuti magari in ambienti isolati. Molte guerre furono dettate dalla necessità di espandere il territorio agricolo. Ora la Russia sta diventando il primo produttore di frumento, grazie alla possibilità di coltivare in Siberia, un tempo inospitale».

Non sempre il cambio è sfavorevole

Il cambiamento climatico, dunque, non sempre è sfavorevole.
«Può essere favorevole in alcune zone e sfavorevole in altre. Penso all’Inghilterra o alla Danimarca, dove ora è possibile coltivare la vite. Ma il concetto fondamentale è un altro, ossia che il cambiamento climatico modificherà i vini che oggi conosciamo: per il futuro, dobbiamo adattarci a qualcosa di diverso. Tutto questo va accuratamente comunicato e spiegato al consumatore, anche durante fiere ed esposizioni: a farlo devono essere tutti, dai produttori agli enologi ai sommelier. Al clima che cambia possiamo solo adattarci, la nostra azione è minima. Già quello degli anni Ottanta, comunque, è diverso da oggi».

Cosa cambierà?
«Innanzitutto, la viticoltura si alzerà. Già ora stiamo scoprendo quanto l’alta Langa sia straordinariamente vocata per le uve base spumante, ma anche il Nebbiolo andrà coltivato più in quota. Per il Barolo si possono ottenere ottimi risultati arrivando fino a seicento metri. L’altezza consentirà di dare più freschezza e l’acidità che in basso non c’è. Allo stesso tempo, si evita un tenore alcolico troppo alto. In realtà, il Nord è più soggetto agli effetti dei cambiamenti climatici. Al Sud ha sempre fatto caldo e si sono scelte varietà resistenti alla siccità: il problema principale resta l’acqua. Dovremo, per forza di cose, rivedere anche i disciplinari di produzione: non possiamo essere così sciocchi da fermarci a dei confini tracciati cinquant’anni fa».

E come si può agire?
«In cantina, con il freddo: far passare l’uva in celle frigorifere prima della pigiatura, raffreddare il mosto con scambiatori prima della fermentazione, gestire la temperatura delle vasche. E attuare macerazioni brevi, per correggere l’acidità. Nel vigneto possiamo servirci delle piattaforme informatiche che, grazie ai modelli predittivi fatti con l’ausilio del satellite, ci aiutano a effettuare le operazioni colturali nel momento giusto. Poi servono portinnesti resistenti alla siccità, vanno coperte le chiome e il suolo dev’essere maggiormente lavorato. Inoltre, conta molto l’allargamento delle distanze tra i filari e tra i ceppi. Questo perché in una vigna la temperatura non viene dall’irradiazione solare ma dagli infrarossi del terreno. Se i filari sono stretti, come in Francia, è impossibile dissipare quel calore. Allargando, invece, creo un corridoio che forma una corrente. Tra una vite e l’altra, allungando le distanze concedo alle radici la possibilità di svilupparsi maggiormente. Chi ha più problemi nell’adattarsi alla situazione, quindi, è la Francia. Primo, perché la sua viticoltura è continentale e non costiera. Poi sono tutti vitigni precoci, durante il germogliamento c’è il rischio di gelate e la maturazione avviene in un periodo molto caldo, con conseguente difficoltà nel gestire il grado zuccherino. E, rispetto a noi, loro non possono salire in quota. I francesi stanno introducendo vitigni più tardivi, importandoli da Italia e Portogallo».

Davide Barile

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