Almeno ditelo chiaramente che dobbiamo farci un’assicurazione privata per l’assistenza sanitaria

Coronavirus in Piemonte: da lunedì nuove assunzioni di personale, premi per gli operatori impegnati nell'emergenza
Immagine d'archivio

LETTERA AL GIORNALE Gentile direttore, ho letto con interesse il vostro servizio sul pronto soccorso di Verduno e il successivo scambio di opinioni con il direttore generale Massimo Veglio. Condividendo lo sforzo del suo giornale per mettere in luce pregi e difetti della sanità locale, vorrei illustrarle due fatti personali, che mi paiono indicativi della situazione in cui si trovano molti pazienti – non va dimenticato che si tratta di malati, non di clienti di un negozio –, che all’ospedale non vorrebbero accedere affatto.

L’esperienza con il pronto soccorso di Verduno l’ho avuta nei mesi scorsi, quando ho accompagnato mio padre: 96 anni, dopo una vita senza problemi, è caduto in casa. A parte l’epopea dell’ambulanza che ha sbagliato strada per il Ferrero, sono dovuto restare un giorno intero al nosocomio in attesa di qualche spiraglio per poterlo vedere e avere informazioni sul suo stato di salute. Era ancora il Covid-19 a dettare le norme, ma una soluzione si dovrebbe trovare almeno per gli anziani, che talvolta (è il nostro caso) non sono mai stati in un ospedale, sono confusi e non comprendono perché i parenti siano assenti.

Solo dopo vibrate proteste, in serata, mi hanno concesso di entrare per dieci minuti. Ho trovato mio padre in grande ansia, tanto che più tardi è stato necessario somministrargli un calmante e trattenerlo per la notte.

Non discuto l’abnegazione dei sanitari, effettivamente oberati di lavoro e mediamente cortesi, ma il nostro servizio sanitario ha rivelato tutte le sue lacune: mancavano i medici, l’attesa è stata troppo lunga, i parenti erano accalcati, si avevano scarse informazioni. Il giorno seguente mio padre è stato dimesso, perché non sono emersi gravi problemi, ma non si reggeva letteralmente in piedi, tanto che è stato caricato sulla mia auto di peso da un solerte infermiere. A casa, poi, è iniziata l’estenuante ricerca di assistenza (privata) a cui tante famiglie sono purtroppo abituate, in totale assenza di continuità assistenziale.

Un altro episodio mi tocca invece in prima persona. Durante le vacanze invernali, dopo una passeggiata, ho iniziato ad accusare dolore a tutta la gamba sinistra. Ho pensato a un postumo della nevicata di dicembre, quando avevo spalato a lungo per liberare il giardino della mia abitazione.

Rientrato a casa ho contattato il mio medico di famiglia che mi ha visitato, prescrivendomi antidolorifici e una visita dall’ortopedico: sono riuscito a prenotare all’ospedale di Verduno, nonostante l’urgenza, solo oltre metà gennaio: fino a quel momento non ho avuto chiarezza circa la mia situazione.

Arrivato dallo specialista, nonostante avessi già in mano una radiografia, mi è stata prescritta una risonanza magnetica: per questa, tuttavia, la prenotazione presso l’Asl sarebbe stata possibile solo a ottobre… Nove mesi senza una diagnosi? Ovviamente, ho optato per un centro medico privato, dove in pochi giorni, sborsando 262 euro, ho avuto il posto. Ora ho in mano la risonanza, ma devo vedere di nuovo l’ortopedico dell’Asl – sono due giorni che cerco di prenotare, ma il Cup mi ha risposto che i nosocomi cuneesi al momento non forniscono alcuna disponibilità – oppure sceglierne uno a pagamento. Insomma, ho un’ernia (pare) da curare e mi sembra già un’odissea. Forse (spero) guarirò prima che il servizio sanitario sia in grado di accertare le mie condizioni.

Capisco i problemi di personale, organizzativi e i costi della sanità, ma visto che di fatto la trafila è un incentivo a rivolgersi ai privati – i quali, chissà perché, riescono a garantire prestazioni in pochi giorni –, si ammetta che tutti dobbiamo pagarci un’assicurazione, con buona pace dei contributi versati.

 Lettera firmata, Canale

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