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Lo sfruttamento viaggia anche tra i vigneti Unesco (REPORTAGE)

Lavoro nero in vigna: 14 addetti scoperti dalla Finanza nell'Astigiano

MIGRANTI Il click day della scorsa settimana – cioè la possibilità per i datori di lavoro di taluni settori di presentare domande d’ingresso per stagionali provenienti da Paesi extra Unione europea – è andato in overbooking in un’ora. Significa che, a fronte di 82.705 quote previste a livello nazionale, sono pervenute 240mila domande, tanto che il Viminale sta pensando a un nuovo decreto Flussi.

Oltre al turismo, a fare la parte del leone nelle richieste è stato il comparto agricolo. Niente di inaspettato: se i braccianti stranieri non entrassero più in Italia, i pomodori marcirebbero nei campi e le uve rimarrebbero attaccate alle viti. Per le principali organizzazioni di categoria, servirebbero almeno 100mila lavoratori, più del doppio delle 44mila quote assegnate all’a-
gricoltura. Questo perché la carenza di manodopera nei campi è un problema sempre più grave, da Nord a Sud.

In effetti, anche in provincia di Cuneo, è stato registrato un incremento delle domande, la stragrande maggioranza relative all’area della pianura cuneese, in base a quanto registrato dalle organizzazioni. Dalla zona vitivinicola albese, ne risultano molte di meno. Perché? Pare per una diversa organizzazione del lavoro, che nel caso della zona di Saluzzo o Fossano è più legata a una stagionalità sul lungo periodo. Ma ci sarebbe anche un’altra ragione: sulle colline Unesco, il fenomeno dell’intermediazione di manodopera, per taluni quasi assente nel Saluzzese, è molto radicato, predominante in certi periodi.

IL RACCONTO

«Per qualche giorno di potatura o per qualche settimana di vendemmia, chi trovo da assumere? La verità è che le cooperative sono spesso l’u-
nica soluzione»: ce lo ha detto un viticoltore di Langa, che ha accettato d’incontrarci insieme a un amico, anche lui titolare di una cantina, per raccontare il punto di vista sulla gestione della manodopera sulle colline Unesco. Fanno infatti parte della categoria aziende di stampo familiare, che per la maggior parte dei mesi riescono a cavarsela con le proprie forze o con qualche aiuto saltuario, fatta eccezione per i momenti di picco, come la potatura e la vendemmia. Un tessuto prezioso, il cui quotidiano è diverso dalle grandi realtà, che contano su decine di addetti tutto l’anno, gestiti grazie a un sistema strutturato.

IL RISCHIO

«È un ambito complicato: anche chi vuole rigare dritto, rischia», prosegue il viticoltore, mentre estrae da una cartellina un plico di documenti. «Qui c’è il contratto di appalto che ho stipulato a gennaio con una cooperativa per il lavoro di potatura: 2mila euro. C’è anche il Durc, il Documento unico di regolarità contributiva, oltre alla visura camerale: è tutto ciò che la legge richiede per affidare un servizio in vigna a un soggetto terzo, insieme alla verifica della regolarità dei contratti che quest’ultimo ha stipulato con i propri lavoratori». Si tratta di un appalto vero e proprio, regolato da un modello che le associazioni di categoria mettono a disposizione dei propri iscritti, per evitare errori. «È il primo anno che ricorro a questa soluzione, perché avevo bisogno di braccia in più. Sono arrivati in quattro o cinque, per terminare il lavoro in pochi giorni: erano stranieri, dell’Est Europa, ma c’era anche un africano». Per semplificazione, si parla di cooperative, ma l’impressione è che esista una giungla di realtà con una diversa ragione sociale. In comune, hanno il fatto di non possedere terra, ma di fornire braccianti. Nel caso in questione, la visura camerale parla di una società semplice, intestata a uno straniero. «Mi hanno detto che è una persona seria: mi sono trovato bene, ma è difficile averne la certezza fino in fondo».

IL PREZZO

In questi casi il prezzo pattuito con l’appaltatore si calcola in modo forfettario, per ettaro. «Io sborso duemila euro per la potatura, ma come posso essere certo che il titolare pagherà i braccianti secondo la legge? Posso visionare i contratti, ma non posso essere sicuro che corrispondano al vero. Peraltro, se dovessi ritrovarmi in vigna l’Ispettorato del lavoro, dovrò rispondere in prima persona della paga oraria dei lavoratori. Di solito, quando ci si trova in questa situazione, si cerca di essere evasivi, come se si dovesse nascondere qualcosa». Il secondo viticoltore porta alla luce un altro risvolto della questione: «La vigna non è una fabbrica, dove si bolla ed entra solo chi è autorizzato. Non abbiamo confini: a volte capita di vedere cambiare i volti dei lavoratori da un giorno all’altro, persino dalla mattina alla sera. In questi casi, significa che ci vengono presentati contratti regolari relativi a certe persone, per poi alternarle con altri braccianti di cui non abbiamo conoscenza e che potrebbero non essere in regola». In questi casi, il viticoltore, cioè l’appaltante, dovrebbe controllare: «Ma bisognerebbe stare a sorvegliarli: non è fattibile».

Perché non scegliere di collaborare solo con realtà di comprovata serietà? Il vignaiolo: «Sappiamo quali sono le cooperative serie. Ma sussiste più di un problema, a partire dai prezzi: il Barolo e il Barbaresco sono due puntini su una cartina. In più, le grandi cooperative chiedono continuità e non accettano il lavoro per poche settimane. Ci si rivolge così alle realtà più piccole, che in media non forniscono un servizio di alto livello, oltre a esporci a rischi. Non si può generalizzare, perché c’è chi lavora bene, ma anche chi si comporta diversamente».

IL SOMMERSO

E poi bisogna anche toccare un altro aspetto: «In questo settore, c’è anche chi affida il lavoro senza contratto di appalto o senza Durc: in nero, accordandosi solo a parole. In questi casi, c’è poco da dire, perché non ci sono scusanti». Solo una strategia per risparmiare? «Forse è superficialità, si pretende di lavorare come cent’anni fa. Io cerco sempre di appoggiarmi all’organizzazione a cui sono iscritto, per essere sicuro di non sbagliare», prosegue il nostro viticoltore.

Anche se, per essere esenti dai rischi, l’assunzione diretta dei braccianti è la strada più sicura: «Non implica troppi costi superiori rispetto all’appalto, a differenza di quanto si pensa. Il problema è che non si trovano persone disponibili: anche gli stranieri sono sempre di meno, perché negli ultimi anni le fabbriche hanno iniziato ad assumerli, garantendo maggiore continuità rispetto al lavoro agricolo».

La conclusione: «Bisogna mettere mano a questo sistema, perché si è creata una speculazione che danneggia l’impresa media. Sappiamo che il problema dello sfruttamento esiste in certi casi, ma servirebbe una riforma a un livello superiore, nel nostro come in altri settori regolati da meccanismi simili».

Roberto Giobergia, Coldiretti: «I flussi sono una strada legale per l’ingresso dei lavoratori stagionali»

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Coldiretti Cuneo, su circa 900 domande raccolte a livello provinciale per l’ingresso di lavoratori stagionali stranieri, ne ha registrate solo qualche decina dalla zona vitivinicola albese. Confagricoltura Alba parla invece di sessanta richieste, meno rispetto al distretto della frutta cuneese. Anche la Cia conferma una preponderanza a livello provinciale delle zone di pianura.

Roberto Giobergia, che segue la questione quote per Coldiretti Cuneo, spiega: «Rispetto allo scorso anno, quando le domande erano state circa 700 da tutta la provincia, anche noi abbiamo registrato un incremento notevole. I flussi sono una strada legale per l’ingresso di lavoratori stagionali, con i quali le aziende sono già in contatto, perché di solito tornano tutti gli anni. Con l’ultimo decreto, il Governo ha affidato alle organizzazioni il compito di esaminare preventivamente le domande, dal punto di vista della regolarità contrattuale e di altri aspetti, come quello abitativo. Le richieste potevano essere però presentate anche dai singoli datori di lavoro, con l’asseverazione di un consulente».

Può essere pertanto che una quota di domande sia pervenuta direttamente dalle aziende, magari da quelle più strutturate. Ma perché nell’Albese le richieste raccolte sono così poche? Giobergia: «C’è un diverso modo di lavorare: qui c’è bisogno di manodopera in più solo in periodi ristretti dell’anno. Esiste una maggiore stabilizzazione, ma anche il ricorso alle cooperative gioca un ruolo per le fasi di picco stagionale. Noi, come Coldiretti, organizziamo molta formazione per i nostri iscritti. Certamente, poi, non tutti i viticoltori si rivolgono alle organizzazioni di categoria». I viticoltori rischiano se non sono in regola. Come possono tutelarsi? «Stipulando un regolare contratto di appalto. Ci sono poi aspetti chiari, per esempio affidarsi a realtà che abbiano una buona struttura».

Jessica Cerrato, referente della materia per l’ufficio albese di Confagricoltura, spiega: «L’incremento delle domande ha riguardato anche la nostra zona, seppure in misura minore rispetto al Cuneese». Il lavoro sulle colline è legato a una diversa stagionalità, meno in linea con il concetto dei flussi: «Da noi, per fortuna, non ci sono problemi con la gestione stagionale, se non in pochissimi casi isolati», afferma dalla sede di Confagricoltura. f.p.

Ascheri: «Bisogna trovare soluzioni adesso»

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Matteo Ascheri

L’INTERVISTA Matteo Ascheri, presidente del consorzio di tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani è un imprenditore vitivinicolo che si è sempre esposto sul tema dei migranti. Non solo: tramite il consorzio, ha sostenuto la nascita del progetto dell’Accademia della vigna, che in modo pionieristico cerca di combinare formazione e lavoro, così da promuovere l’assunzione diretta dei lavoratori. A Grandi Langhe, andato in scena nei mesi scorsi a Torino, il tema è stato anche al centro dell’incontro di apertura della manifestazione.

Ascheri, la stupisce che il click day non sia stato un successo nella nostra area?

«Non ho una conoscenza diretta di questo dato ma, se è così, non mi stupisce. Come ripeto sempre, da un’analisi che abbiamo condotto, circa la metà dei quattromila braccianti agricoli attivi sulle nostre colline è gestito da cooperative. Calcoliamo che circa mille siano finiti nei meandri di realtà spurie. Per quanto mi riguarda, ho scelto da tempo la strada dell’assunzione diretta, perché ho sempre voluto tenermi lontano da questo mondo opaco».

Perché molti suoi colleghi non fanno lo stesso?

«Perché esternalizzare un servizio è più semplice e anche meno costoso: una persona assunta va pagata tutto l’anno, con 14 mensilità. Nella realtà, c’è anche da dire che le cooperative, soprattutto quelle poco serie, non rappresentano sempre un risparmio: nel picco della vendemmia, sono loro a dettare i prezzi, perché spesso le aziende più piccole non hanno programmazione e hanno bisogno di personale in tempi stretti. Secondo i meccanismi del mercato, quando la richiesta è tanta e l’offerta è poca, i loro profitti finiscono per lievitare. Dall’altro lato, l’imprenditore agricolo ha come prima preoccupazione quella di trovare qualcuno che gli raccolga l’uva e può finire in situazioni che andrebbero evitate».

In tutto questo, quanto i viticoltori sono responsabili del problema?

«L’appaltatore è responsabile, ma è plausibile che a volte i viticoltori siano loro stessi vittime del sistema, proprio per il meccanismo che spiegavo. Non si può certo dire che sia sempre così: non possiamo escludere che il viticoltore sappia e agisca lo stesso in questo modo. È un po’ la differenza che c’è tra corruzione e concussione, in fondo».

Come si potrebbe risolvere questa situazione?

«È chiaro che va risolta, per almeno due motivi: il primo è etico e il secondo è d’immagine, perché ci danneggia tutti. Oltre al progetto dell’Accademia, che lavora su piccoli numeri ma che sta aprendo una strada nuova, abbiamo avviato uno studio di fattibilità per cercare di creare una sorta di cooperativa istituzionale, che possa gestire i flussi degli stagionali in modo corretto, in base a quanto dice la legge. Siamo in una fase embrionale della progettazione, ma ci stiamo confrontando con i vari enti che potrebbero sposare questo progetto. Inoltre, vorremmo capire se esistono anche altre strade: a breve, saremo a Roma per incontrare Jean René Bilongo, presidente dell’osservatorio Placido Rizzotto su agromafie e caporalato, per confrontarci con lui e valutare se esistono soluzioni migliori, a cui noi non abbiamo ancora pensato».

Francesca Pinaffo

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