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È l’Alba dei miracoli nel racconto di Luigi Carosso

Con una telefonata a Gazzetta Carosso, 101 anni, chiede di essere messo in contatto con Asola, che poi va a trovarlo: ne scaturisce un affresco della città

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L’INCONTRO Quando sento al telefono la prima volta Luigi Carosso di Alba, classe 1923, centouno anni a novembre, rimango di stucco. Una voce sciolta, gioviale e gentile. Giovanile, persino. Da un ultracentenario mi aspettavo una voce “da anziano”: lenta, magari un po’ impastata. Invece lui parla svelto e chiaro, con l’entusiasmo del più vispo dei cinquantenni, e per il mio esile interloquire non devo per nulla scandire le parole come ero preparato a fare. Ascolto come se lui fosse mio padre, come quando in ultimo – nel 2009 a ottantacinque anni – mi raccontava dei suoi formidabili anni giovanili.

Carosso si dice grato a Gazzetta d’Alba per averci messi in contatto (l’uomo aveva telefonato in redazione per cercare lo scrittore, ndr): giornale amico, oltre che organo d’informazione. Luigi Carosso, amico di gioventù di mio padre, avendo letto i miei articoli e i romanzi Volevo vedere l’Africa e Alba dei miracoli, vuole raccontarmi episodi albesi di quegli anni tra il ’50 e il ’60. In più, intende mostrarmi vecchie fotografie che ritraggono il babbo e il progetto con capitolato della sua casa, redatto a mano da mio padre nel 1957 («ma non firmati da lui, perché allora lavorava in Comune», puntualizza acutamente il centenario).

È l’Alba dei miracoli nel racconto di Luigi Carosso

Luigi accenna al suo lavoro in drogheria dai tredici anni sotto i portici in piazza del Duomo, nella casa dove abitavano mio padre e – all’altra scala – Luciana Bombardi, allora ragazzina, futura moglie di Beppe Fenoglio. Racconta delle gite a Varallo Sesia e a Crissolo tra il 1948 e il 1950 con mio papà – appena tornato dal lavoro in Francia dopo averla liberata in divisa americana –, e con mio zio e altri amici.

Ricorda i sabati sera con la combriccola alla sartoria Asola in via Mandelli a tenere compagnia ai miei zii Elvio e Renzo che lavoravano per finire gli abiti, a mangiare di soppiatto i tajarin preparati da mia nonna per il pranzo del giorno dopo. Elenca i nomi degli zii (Pio, Maria e Marisa) e di tanti amici di allora: Renato Arnaldi di Neive, per esempio, che sarà dirigente (e mio capo) al marketing della Ferrero a Pino Torinese, gran disegnatore di caricature e artista a tempo perso. Racconta della cara moglie, scomparsa anni prima, delle tante gite fatte con lei in Europa, in Messico e in Thailandia. Commenta che lui ancora adesso viaggerebbe, se il suo cammino non rallentasse gli altri. Infine, ci diamo appuntamento per sabato pomeriggio a casa sua, oltre il santuario della Moretta.

Quel sabato il signor Carosso mi aspetta in piedi sulla terrazza, da solo, e saluta con la mano. Mia moglie e io ricambiamo e guardiamo quella casa progettata da mio padre: non era solito parlare dei tanti edifici a cui aveva lavorato negli anni dell’espansione edilizia. Ci fa salire in terrazza. Indica il susseguirsi di colline davanti, da Guarene a quella del nostro liceo scientifico, e le casette basse del quartiere nato negli anni ruggenti del miracolo economico albese. «Qua c’erano vigne e campagna». Lo dice senza malinconia. Non c’è sentore di via Gluck. Ci fa sedere, lui rimane un po’ in piedi a raccontare l’Alba che fu.

È l’Alba dei miracoli nel racconto di Luigi Carosso 1L’uomo sprizza energia e vitalità, nonostante il bastone che – dice – usa solo per alzarsi dalla sedia: «Sa, una volta in piedi vado che è un piacere». 101 anni, ma è come se ne avesse 75 ben portati. È orgoglioso di aver lavorato in negozio fino a 96 anni compiuti e di essersi sempre occupato dei nipoti e di sé stesso, benché il figlio Walter abiti nei pressi: «Cucino ancora per tutti e mi faccio il bucato. Non stiro, e per questo preferisco non usare camicie». Aggiunge: «Non ho alcun rimpianto». Intanto ci mostra fotografie di montagna di fine anni ’50 con il babbo e altri amici, tutti in giacca e cravatta e fazzoletto nel taschino.

È un piacere ascoltarlo raccontare un’Alba che non c’è più. Conosce tutti i vecchi esercenti e snocciola a memoria il succedersi di proprietà, gestioni e varietà merceologiche, via per via, bottega per bottega. Gli dico che mi dispiace non averlo conosciuto quando scrivevo Alba dei miracoli, di cui mi ricorda passaggi in cui qualifico il protagonista come capoufficio tecnico comunale. «Come suo padre», precisa.

«Alba com’era» cita, parafrasando lucidamente il titolo dell’omonimo libro di Buccolo, Necade e Macario edito dalla Famija albèisa. E via con gli episodi. I suoi inizi del lavoro in piazza del Duomo, soprattutto. La guerra, il militare e dopo l’8 settembre il nascondersi in una nicchia segreta in casa nel cuore di Alba per sfuggire ai rastrellamenti. Le tante storie di una via Maestra punteggiata di botteghe. A seguire, un’Alba che risorgeva dopo la notte della guerra. Ho davanti a me chi incarna l’anima, il cuore pulsante e la memoria della vecchia città.

Ogni pomeriggio alle 13, dopo il pranzo a casa, andava alla pasticceria gestita da Piera Cillario, moglie di Pietro Ferrero, all’angolo di via Belli a chiacchierare con Michele Ferrero e i Miroglio e a sentire alla radio il Giro d’Italia. In via Maestra c’erano quattro delle sette drogherie di Alba. Nei negozi tutto era sfuso, i negozianti compravano direttamente dal produttore o dall’importatore; l’olio si imbottigliava pompandolo dai barili; il caffè lo vendevano a sacchi che lui portava con la carretta anche alle due stanze magazzino di Giovanni Ferrero nella piazza del foro boario. Ricorda la vecchia confetteria Pettiti, la pasticceria Cignetti e Berta.

Il bar Barachin in piazza del Duomo e poi il lattoniere nel cortile della casa medievale di piazza San Giovanni, che produceva per Pietro Ferrero gli stampi per il mattone di surrogato di cioccolato prodotto nel laboratorio di via Rattazzi e che si vendeva in drogherie e mercati. I mulita, gli acciugai di piazza Rossetti, la Tavernetta com’era allora, piccola, dove mia madre e mio padre si erano conosciuti, la salumeria Cogno di via Maestra, i pastifici come Testa in via Cavour (con stipi caricati di prodotto dall’alto, dai cui cassetti magicamente si attingeva con la paletta di legno), davanti alla farmacia di Pinot Gallizio. E, a proposito di farmacisti, Guido Sacerdote, diventato famoso grazie al mezzo che più ha plasmato il miracolo italiano, la televisione. E, ancora, il negozio di Bombardi in piazza del Duomo, la farmacia Settimo, i telai di Miroglio in via Manzoni, il negozio di abbigliamento Gonella in via Cavour. E poi, dal ’72, finalmente la “sua” drogheria, che diventerà enoteca e confetteria, accanto alla vecchia libreria delle sorelle Marchisio. Parla con orgoglio della nuora Nadia, prima enotecnica donna della scuola Enologica di Alba, e delle nipoti.

Mi porge il libro dell’albese Nando Vioglio Come eravamo, dell’associazione culturale Giulio Parusso. S’infervora a commentarne alcune foto. Me lo regala, assieme a quattro belle immagini in bianco e nero con papà, scattate alla fine degli anni ’40.

Ci trasferiamo in cucina per vedere il progetto della casa. Dice: «Casa progettata da suo padre nel 1957, nel ’58 era già finita, con la sua direzione lavori». Riconosco il tratto di mio padre nei disegni fatti al tecnigrafo (lo ricordo chino su fogli e squadrette, in una nuvola di fumo) e la sua calligrafia perfetta nell’accurato capitolato dei lavori. Capisco perché i due erano amici.

Dopo due ore indico la mia utilitaria, di sotto. Dobbiamo tornare a Torino. Commenta che la sua patente scade il prossimo anno, ma preferisce lasciare l’auto in garage. Ci lasciamo con la promessa che la prossima volta mi racconterà tanti aneddoti di quell’Alba di cui lui conosce l’anima.

Mi accorgo di non aver preso appunti, in quelle due ore volate in un soffio nel cuore di un’Alba dei miracoli, al cospetto della collina dove con mia moglie ho frequentato il liceo scientifico. Alla prossima, Luigi Carosso: un vero esempio da seguire.

Teresio Asola

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