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Il direttore risponde (14 maggio)

Lettera aperta a due giovani contadini

Carissimi Luca e Marco, leggendo Gazzetta d’Alba ho visto la vostra foto e letto la breve, bellissima, intervista in cui “spiegate” la vostra scelta professionale. Pur non conoscendovi ho sentito una tale simpatia, una tale ammirazione, una tale affinità di pensiero, da prendere carta e matita per scrivervi le mie più vive congratulazioni. Che meravigliosa libertà nelle vostre parole! «Siamo soddisfatti di quello che facciamo e questo ci basta». Se ci fosse bisogno di stabilire una graduatoria di nobiltà tra i diversi mestieri io non avrei dubbi: quella del contadino è la più alta. Fortunati voi che vivete liberi e contenti il mestiere più necessario (in economia l’agricoltura si chiama non a caso settore primario) e fortunati i vostri genitori che hanno in voi un impulso di forza e di idee che certamente li rallegra. Anche a loro vanno i miei complimenti. La soddisfazione che date loro è certamente meritata. Non avreste dato continuità alla tradizione di famiglia se non aveste visto in loro esemplari doti di umanità, professionalità e serietà. Maurizio Bongioanni conclude l’articolo accennando al fatto che “resistete” anche ai pregiudizi. Io non lo so se ci sia qualcuno ancora così cretino da considerare il lavoro contadino “poco nobile”. Tra i tanti amici che ho in varie città constato, al contrario, molta invidia. Una mentalità siffatta dimostrerebbe una grande arretratezza culturale e ancor più una vergognosa arretratezza morale. C’è ancora chi considera la cultura come il passaporto per il privilegio. È la cultura, avrebbe detto don Milani, dei “Pierini”. È la cultura di chi cerca un “buon posto”. Buon posto ovviamente è quello dove dai poco e prendi molto. Ottimo è il posto dove dai niente e prendi tutto. Cioè la ruberia, tanto più feroce quanto più è in giacca e cravatta, il pizzo, la mafia. Cultura che ci libera, che ci umanizza, che ci unisce è quella che ci dà strumenti per capire di più e servire di più. Come appunto fate voi. Vi ringrazio di cuore perché queste cose in cui credo da sempre con ogni fibra del mio essere possono avere consistenza se sono vita. Tante vite come le vostre che vi auguro piene di pace, di forza e di gioia.
Beppe Marasso

Purtroppo Luca e Marco sono due ragazzi in controtendenza. Il mestiere del contadino va scomparendo, con gravi danni non solo per l’economia, ma anche per il territorio, come abbiamo raccontato sul n. 18 di Gazzetta, alle pagg. 20-21. Eppure la stessa parola cultura deriva dal latino colere, coltivare. Lavorare la terra perché dia frutto, valorizzando anche gli studi e la preparazione intellettuale, non sminuisce la persona, non la rende meno nobile. Sono solo pregiudizi. Mi vengono in mente anche le tante immagini del Vangelo tratte dall’attività agricola: Gesù parla del lavoro dei campi, della semina, della mietitura, della vendemmia, e dei prodotti della terra, il grano, l’olio, il fico, il vino. Non si tratta solo di un adeguamento alla cultura agricola del suo tempo da parte del Signore, ma di una scelta che mette in rilievo come il Regno di Dio riguardi la vita, la realtà profonda di ciascuno di noi. Il Vangelo ha la capacità di trasformarci, di farci fiorire, di portare frutto. Perché noi esseri umani veniamo dalla terra, siamo fatti di terra. Se accogliamo il seme della Parola, con pazienza lo coltiviamo, possiamo davvero essere uomini e donne nuovi, liberi. Possiamo portare frutti duraturi e condurre una vita piena, autentica, fatta di bene e di amore. In questo modo rendiamo davvero culto a Dio. Anche la parola culto deriva dal latino colere: significa coltivazione e, in senso derivato, indica la cura, l’adorazione. Il lavoro del contadino è dunque nobilissimo e chi ha cura della terra comprende meglio degli altri la vera saggezza.
Don Antonio Rizzolo 

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