Renato Salvetti, 87 anni, di Dogliani, combatteva nelle file dei partigiani di Savona. Il partigiano si è presentato nelle scorse settimane, con l’animo di un giovane, ai ragazzi della scuola media Macrino per raccontare della sua esperienza come prigioniero del campo di concentramento di Mauthausen, in Austria. Queste sono le sue parole.
«Questo mio lavoro di memoria lo continuerò fino alla morte», ha esordito Salvetti. «Sono stato arrestato alla vigilia di Natale del ’43 a Roburent. Stavamo facendo la guardia al nostro campo e cuocevamo le castagne. A un certo punto qualcosa si mosse sulle colline. Erano in troppi. Ci catturarono tutti e 48. Calpestando la neve per 25 chilometri, fino a Mondovì, entrammo nell’ufficio del generale Rossi che ci chiese se saremmo passati dalla loro. Era l’unico modo per avere salva la vita. Ma il Vicecomandante rispose per tutti che preferivamo l’ignoto ad allearci con i fascisti».
«Ci fecero salire su un carro bestiame per Cuneo, piazza Vittorio, poi nella neve per ore. In Questura ci seviziarono per bene. Infine, fummo sbattuti in galera. Fu qui che provai per la prima volta la fame. Per avere due razioni svuotai la ciotola nel secchiello di alluminio in cui ci si lavava, prendendone una seconda. Ma mi scoprirono. Allora posai la ciotola nel boiolo, dove si facevano i bisogni. Nessuno controllò e io potei mangiarla, ma non riprovai a fare quell’esperimento».
«Un giorno ci presero per un interrogatorio. Eravamo in trenta, con inglesi e francesi, tutti con la faccia al muro. Quattro vennero fucilati a Cairo Montenotte. Noi fummo trasferiti a Torino, dove tutte le settimane venivamo interrogati nell’hotel Nazionale. C’era un boxeur, Bonaria, che ci picchiava continuamente: a me spezzò 17 denti. Era il marzo del ’44 quando ci portarono a Porta nuova e ci caricarono su un vagone merci al binario 19. Eravamo schiacciati come acciughe e non potevamo che fare i nostri bisogni lì, sul posto. Da Bergamo partimmo in 563 il 16 marzo e arrivammo il 20 marzo nel campo di Mauthausen».
«A Mauthausen ricordo un freddo bolscevico. Ci denudarono appena entrati, nel cortile, e ci depilarono. Con un rasoio che faceva male ci ridussero con una striscia dalla fronte alla nuca, larga tre dita: era il nostro segno di riconoscimento. Poi una doccia gelida, una pennellata di petrolio e fuori di nuovo al freddo ad asciugarci. Ci portarono nella stuba, la camera in cui dormivamo ammucchiati, uno coricato in un verso e l’altro nell’altro. Se ti alzavi, non trovavi più il tuo posto. Al quarto giorno ci consegnarono le divise. Ero il numero 59138 e lavoravo con gli altri nelle cave sotterranee. I kapò ci ordinavano di andare sempre più veloci e ci percuotevano se ci fermavamo anche solo un istante».
«Chi trovava erba fresca cercava di nasconderla per poterla mangiare. Ricordo la scalinata di 180 gradini all’entrata del campo, costruita dai prigionieri spagnoli. In cima c’era un piccolo promontorio dal quale gettavano i politici: ognuno doveva lanciare di sotto quello che gli stava davanti, altrimenti veniva ucciso a colpi di pistola. Tutti i corpi venivano trasportati su carriole, venivano privati dei denti d’oro, poi finivano al forno crematorio. Chi operava al forno era più nutrito perché doveva stare in forze, ma dopo pochi mesi di “lavoro” veniva eliminato per essere sostituito con qualcun altro. Nessuno doveva poter raccontare».
«Quella vita dovetti sopportarla per sette mesi. Ogni sera ci chiamavano per numero, uno per uno, in tedesco. Io imparai il mio dopo pochi giorni, a forza di botte. Dopo l’appello ci davano un brodino con bucce di patata, pane nero durissimo e pochissima carne. Poi, tutti nei letti a castello: ogni quattro persone una coperta e la tua roba sotto la testa, a mo’ di cuscino, altrimenti non l’avresti più trovata. Alcune sere ci facevano alzare nel cuore della notte per controllare i pidocchi. Se li avevi dovevi ucciderli e poi venivi frustato. Ad alcuni kapò piaceva anche portare nelle loro stanze i giovani. Così, alle violenze si aggiungevano violenze».
«Dopo la Liberazione tornai a casa: pesavo 29 chili, avevo la pelle bruciata ed ero senza denti. Salito sul barcone per attraversare il Tanaro seppi che un bombardamento su Dogliani aveva ucciso mia madre. Passai tre mesi in ospedale, poi 17 mesi ad Alessandria e infine 23 a Roma, in convalescenza. Ero traumatizzato e non potevo fare lavori pesanti. Conobbi mia moglie, che ora non c’è più: fu la persona più dolce della mia vita. Di notte mi sentiva piangere, perché sognavo di essere picchiato dai nazisti. Ora sto meglio. Mi ha aiutato il fatto di raccontare le mie storie. Dal 1978 vado nelle scuole, per far sapere. Lo farò fino a quando ci riuscirò».
Maurizio Bongioanni