Perché è necessario ribadire che la giustizia è una cosa seria, Nicaso?
«Pare una frase scontata, ma non lo è, perché la giustizia non è uguale per tutti o come tale non è percepita. Basti dire che in Italia si puniscono con maggior severità i reati legati all’immigrazione clandestina piuttosto che l’abuso in atto d’ufficio. E che, in questo Paese, è sempre più difficile pensare a un’altra Tangentopoli, perché sono state introdotte leggi che non permettono di perseguire taluni reati. Credo si stia sottovalutando il momento».
Qual è il rischio?
«Di tornare allo Statuto albertino. Le proposte di riforma della giustizia portano ad alterare il tradizionale equilibrio dei poteri, a cui s’ispira la nostra democrazia. Non possiamo far dipendere la Magistratura dall’Esecutivo ».
Lei pensa, quindi, che il dibattito odierno sulla riforma della giustizia sia strumentale?
«Se pensiamo a un cambiamento, è perché intendiamo migliorare. Con questa riforma, invece, non si migliora. Se occorre affrontare i nodi dei “processi lumaca”, non si devono restringere i termini delle prescrizioni, poiché così si nega la giustizia. Le riforme vanno pensate all’interno di logiche condivise, non nel quadro di uno scontro di potere che conduce a una delegittimazione reciproca: politica contro magistratura. Come può permettersi il Presidente del Consiglio di definire i magistrati metastasi?».
Nicaso con i ragazzi della media “Pertini”.
Lei vive in Canada. Come si vede da fuori la situazione italiana?
«Siamo sbigottiti. Da noi la giustizia è una cosa seria e soprattutto si mantiene forte il rispetto delle istituzioni. Basti ricordare il caso Clinton: il procuratore Kenneth Starr era chiaramente di espressione repubblicana, eppure il Presidente degli Stati Uniti non ha cercato affatto di sottrarsi al processo, delegittimando il Magistrato, ma ha piuttosto tentato di provare la propria innocenza, difendendosi dalle accuse all’interno del processo».
Come se ne esce?
«Attraverso una riflessione seria sulla giustizia. La giustizia non può essere modificata per convenienze personali. Nessuno può dire che funzioni bene in Italia, ma le riforme devono essere pensate in una logica costruttiva, frutto di soluzioni condivise».
Quali sono le riforme a cui tendere?
«Quelle per velocizzare i tempi. Ad esempio, la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che in Italia ricalcano lo schema ottocentesco, quando le distanze venivano coperte a dorso di mulo; la riduzione del numero dei tribunali – almeno dieci in Piemonte –, l’utilizzo della posta elettronica per l’esecuzione delle notifiche, la depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale alle questioni di maggior allarme sociale. Bisogna investire in giustizia, ma in realtà il Governo non vuole una Magistratura che faccia le pulci ai politici. Per contro, le riforme che ipotizza il ministro Angelino Alfano rischiano di andare in senso opposto all’interesse comune. Se andrà avanti questa riforma, rischiamo una società in balia dei potenti, con una giustizia a loro misura, e una per gli straccioni».
Ritiene che l’enfasi sulla giustizia da parte del Premier possa aver giocato un ruolo negativo anche sull’esito delle recenti elezioni amministrative?
«In Italia non esiste un voto libero, molte regioni sono sottratte alla sovranità dello Stato. Il voto ha importanza in funzione dello scambio».
Parla del Sud o anche del Nord?
«Del Sud, ma vedo un Paese che si sta omologando alla logica del voto di scambio. Il problema è che in molte regioni, specialmente al Sud, si vive in perenne stato di bisogno e, per ottenere lavoro, la gente deve cedere alla richiesta del favore. Ci sono state inchieste che hanno provato la compravendita del voto anche per cifre minime. Esiste un’Italia che si esprime nell’urna non per convinzione, ma per ottenere qualcosa. È difficile pensare di trasformare il Paese, se non si riesce ad affrancare queste aree dal bisogno».
In questo panorama si inserisce anche il tema delle intercettazioni, che riemerge periodicamente all’interno del dibattito. Che cosa ne pensa?
«Le intercettazioni sono uno strumento efficacissimo nella lotta alle mafie. Limitarle significherebbe non poter andare a fondo delle dinamiche del malaffare. La proposta è il pedinamento, ma se mancano le risorse è ben difficile pensare di poter attuare un’azione efficace. Gratteri spiega nel nostro libro che a Reggio Calabria le intercettazioni costano 11 euro più Iva al giorno, contro i 3 mila euro di un pedinamento da Roma a Reggio Calabria (che, spesso, non garantisce il risultato, perché il pedinato può accorgersene e farla franca). Le intercettazioni vanno regolamentate, è vero. Bisogna intervenire sulla violazione della privacy e del segreto e sulla diffusione di notizie che riguardano aspetti non pertinenti dell’indagine. Ma pensare di abolirle o limitarle fortemente significa rischiare di consegnare il Paese alle mafie, non tenendo il passo di una criminalità che utilizza i mezzi più sofisticati per comunicare, e a una casta di politici che potranno impunemente mantenere i propri privilegi».
Non mi pare molto ottimista in tema di lotta alle mafie…
«Vedo con grande piacere l’interesse dei giovani. I giovani devono partecipare, impegnarsi, coinvolgersi, non firmare deleghe in bianco. Si sta lavorando molto all’interno della società civile, ma si dovrebbe fare di più sul piano normativo. Purtroppo, bisogna registrare la mancanza di una forte volontà politica a contrastare le mafie. Dal 1861 in poi lo Stato ha reagito in caso di stragi o delitti eclatanti, ma ha in realtà ricercato sempre il miglior compromesso».
I magistrati sono soli?
«La classe politica non ha interesse a seguire i magistrati sul piano delle riforme fondamentali, come quelle che colpiscono i reati finanziari. Occorre decidere che tipo di modello vogliamo per l’Italia. Possiamo scegliere un Paese a partecipazione mafiosa – e quindi un Paese che non riesce a fare a meno del voto e del capitale illecito –, oppure voltare pagina e costruire una società in cui sia bandita la cultura dello scambio. Se perpetreremo una società nella quale i diritti sono regolati dallo scambio e i doveri sono pressoché inesistenti, daremo forza alle mafie, che sguazzano laddove non emerge la meritocrazia ma l’appartenenza o l’amicizia».
Il Salone del libro di Torino le ha dato speranza?
«Ho visto tanti giovani con voglia di fare. Ma se penso a loro mi vengono in mente le parole di Pietro Aglieri, un boss della mafia intercettato dalla Polizia, il quale diceva sull’antimafia: «Lasciateli fare. Tanto, se avranno bisogno di un posto di lavoro, verranno da noi». Per questo dobbiamo affrancare il Paese dal bisogno, modificandone le logiche. Se manterremo una parte d’Italia in balia della necessità, avremo sempre un voto condizionato dalla mentalità mafiosa e un’economia avvelenata dai capitali illeciti. La voglia di riscatto dei giovani deve tradursi in progetto politico. Sono fiducioso, perché vedo un reale desiderio di partecipazione».
Maria Grazia Olivero