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Natale, la cognà di Metilde

«Qui siamo come due secoli fa!». Il primo commento di Vanna Burdese, un’amica di Alba. In effetti, il luogo è particolare e, abbastanza, insolito. Una vecchia aia di cascina di Langa. Al centro due caldaie in rame con il fuoco che crepita. Galline “americane” scorrazzano libere, tra due gatti e un volpino. Attrezzi agricoli da tutte le parti. È arrivata gente alla cascina Metilde di Madonna di Como; tutti lavorano per preparare la cognà, in italiano “mostarda”. È una conserva derivata dalla frutta, le cui origini si perdono nel tempo. Il miele, i succhi di frutta e il mosto d’uva erano già usati, in qualità di dolcificanti, nelle civiltà greco-romane. La cognà, nata come edulcorante, in seguito è stata utilizzata per altri usi di cucina. Di grande squisitezza e ricchezza di sapori, la sua preparazione è – meglio, era – un vero rito, con regole precise. Coinvolge molte persone. Chi sgrana l’uva, chi lava e taglia la frutta, qualcuno si procura il legno da ardere, altri curano il fuoco. Mamma Metilde sovrintende a tutto con tempismo perfetto.

LA RICETTA

Ogni massaia, ogni paese, ha la sua ricetta, anche se gli ingredienti variano poco. In genere, si discute sul tipo di uva da usare. Moscato e barbera pare siano le migliori. È chiaro che ogni massaia usava l’uva disponibile. Ecco gli ingredienti di mamma Metilde: 50 litri di mosto di uva barbera e moscato, con 30 chilogrammi di frutta. Mele renette o percandù, pere cotogne, fichi a buccia fine, pere piccole, qualità Madernassa, raccolte fresche, oppure Martin sec, se si trovano. Inoltre, noci e nocciole, bucce di limone e chiodi di garofano. Ma ci sono molte varianti. La più comune è quella che richiede esclusivamente pere, mele e mosto. In ogni caso, le pere Martin e Madernassa potrebbero essere sostituite da altre qualità, purché non acquose. Si dovranno utilizzare quasi acerbe. I fichi, invece, dovranno essere maturi, ma ben sodi. Qualcuno usa anche cannella e buccia di arancio.

LA PREPARAZIONE

Per prima cosa occorre trasformare l’uva in mosto. In vero si prende, spesso, direttamente da una cantina. È bene che non sia ancora stato aggiunto metabisolfito. Se invece si usa l’uva fresca occorre lavare i grappoli, staccare gli acini, togliere i vinaccioli e, per ultimo, passare cosa resta nel passaverdura. Ottenuto il mosto si mette in caldaia. Quando si raccoglie l’uva per la cognà? Risposta non facile. Secondo Mario Sandri, enotecnico e figlio di Metilde, «è meglio verso fine ottobre-inizio novembre». Ovviamente, utilizza uva raccolta tardivamente, quindi appassita. «I profumi sono migliori», secondo Sandri. Preparare la cognà richiede una lunghissima e costante cottura. In tal senso, ottimale è la vecchia stufa a legna. Se si usa fuoco diretto è opportuno usare legno di pesco. È molto profumato. Ma va bene anche la gaggia. L’intensità del fuoco va regolata in qualche modo, le fiamme devono uscire bene dal basso, avvolgendo la caldaia. A tal fine, la pentola in rame attaccata a un trespolo di castagno è legata a una catena che si può agganciare in modo diverso regolandone l’altezza, onde evitare l’eccesso di calore. In pentola si aggiungono pere e mele tagliate a pezzi grandi, quando il mosto è concentrato a metà del volume. Seguono i fichi, che non si sbucciano. I gherigli di noce invece vanno scottati e pelati, mentre le nocciole vanno tostate in forno. In seguito, si passano sopra un setaccio di ferro per staccarne la pelle bruciacchiata. Ma, in genere, si aggiungono a fine cottura. Metilde preferisce tostare e sminuzzare entrambi, quindi aggiungerli dopo i fichi. In tal modo la cognà rimane più uniforme e con maggior morbidezza. Qualcuno mette verso fine cottura la pera intera, rimarrà tale dopo la cottura. Al momento del consumo, sistemata su un piattino con un po’ di mostarda intorno è una vera leccornia. Infine, si mettono i chiodi di garofano chiusi in un sacchettino di garza (da togliere a fine cottura). Occorre girare bene dopo l’aggiunta della frutta, per evitare che la cognà attacchi sul fondo.

LA COTTURA

Occorre cuocere molte ore, a fuoco lento, sino a ridurre il composto a una marmellata densa; i pezzetti di frutta dovranno risultare quasi disfatti, ma su questo punto le opinioni divergono. La verifica della giusta cottura non è semplice. Innanzitutto, si valuta visivamente come cambia il modo di bollire in pentola: infatti, le bollicine arrivano diversamente in superficie. È il momento critico: si mette un po’ di cognà in un piatto e si fa roteare. Inoltre, Metilde con un cucchiaino crea un solco nel piatto: da come i bordi del solco si uniscono si valuta, con un po’ di esperienza, densità e concentrazione. Se si unisce subito, il composto è ancora troppo liquido, se si unisce tardi è troppo denso. Il tempo di cottura alla cascina Metilde è di 7 ore prima dell’aggiunta della frutta, in seguito prosegue per altre 3 ore. Totale 10 ore per ottenere, da 80 litri di volume iniziale, 30 litri di prodotto finito.

LA CONSERVAZIONE

La cognà si mette sempre calda nei recipienti. Una volta si utilizzavano le classiche tupine, anche da parecchi litri. Si chiudevano con carta oliata, si legavano con un cordino per bloccare la carta. Comodissimi, oggi, i barattoli da 250 grammi o da 500 con chiusura a vite tipo Bormioli. Bisogna versare la cognà ancora bollente. Infatti, a Madonna di Como il fuoco rimane sempre acceso. Il calo della temperatura crea un vuoto che garantisce la conservazione. Per ottimizzare quanto detto, Metilde mette i barattoli pieni e caldi in una grande cesta di vimini e protegge il vetro con molti giornali. Infine copre la cesta con una spessa coperta di lana. Dopo poche ore il leggero rumore “tap-tap” significa che i coperchi flettono per depressione interna al barattolo, causata dal lungo raffreddamento. Il composto è così del tutto sterile e si conserva bene per alcuni anni.

L’UTILIZZO

In cucina la cognà è utilizzata come salsa per bolliti misti. Può essere consumata su fette di pane tostate e imburrate. Ottima con le tome autunnali, ricche di grasso. Si sposa in modo egregio con la polenta. Ma quella del giorno dopo, tagliata a fette sottili, ben arrostite e croccanti in superficie.

Lorenzo Tablino

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