Genitori di un atleta

Essere genitori di un giovane sportivo è il titolo dell’incontro – con ingresso libero – organizzato dall’Olimpo basket Alba in collaborazione con il consorzio socio-assistenziale Alba Langhe Roero e la Banca d’Alba. Venerdì 31 marzo, alle 20.45, nella sala convegni dell’Istituto di credito, in via Cavour 4, il relatore sarà Massimiliano Gosio. Giornalista e insegnante, fa parte del gruppo di dirigenti dell’Amatori basket Savigliano. Si è formato in Management dello sport con corsi del Coni ed è membro dell’Assemblea nazionale della Federazione pallacanestro. In ambito ecclesiale si occupa di animazione e pastorale giovanile. È autore di Tossicodipendenza e alcolismo, alla scoperta di due problemi sociali.

Mamma, papà e il “tifo” per i figli. «Da sempre il genitore è il primo tifoso del figlio – e non solo in ambito sportivo – sostenendolo ed appoggiandone, com’è giusto, le aspirazioni e i sogni. Però si è perso, in molti casi, il senso della misura. Il genitore interpreta, spesso, il ruolo di sostenitore tout court del figlio qualsiasi cosa faccia, positiva o negativa, in campo, a scuola, in oratorio, per strada, in famiglia. Questo porta ad atteggiamenti esasperati e ingiustificabili, che non fanno il bene del giovane e lo portano a privilegiare il proprio risultato a ogni costo, prima che la sua autostima, la sua realizzazione di persona, la sua felicità, in tutto ciò che vive, in tutto ciò che è, mentre il genitore perde sia la serenità di giudizio, mettendo le ragioni del figlio davanti a tutto, anche quando sono sbagliate, sia il suo ruolo educativo e morale».

Le società sportive sono attrezzate per gestire il rapporto con le famiglie degli atleti? Che cosa manca? «Le società sportive, nella stragrande maggioranza, non sono preparate a gestire il rapporto con le famiglie dei loro ragazzi, così come la loro evoluzione o involuzione. Scarseggiano figure di riferimento preparate a relazionarsi con efficacia con i genitori. Agli allenatori manca tempo e, comprensibilmente, la voglia di farlo. Dico comprensibilmente perché spesso i genitori, che io considero una risorsa fondamentale per le società sportive, si relazionano con gli allenatori e la dirigenza solo in modo negativo. E questo non è il modo migliore per avviare un rapporto di qualsivoglia genere. Una parte del mio impegno è rivolta proprio a dare strumenti a entrambe le parti per dialogare e collaborare per il bene dei nostri ragazzi». Che cosa scriveresti se ti chiedessero le prime tre regole del “buon genitore” in ambito sportivo? «Nell’incontro di venerdì cercherò di dare un po’ di “dritte” in proposito. Non con la pretesa di insegnare alcunché, macon lo scopo di facilitare e migliorare il ruolo di genitore di un giovane sportivo, dico che la madre di tutte le regole è quella dell’empatia. In altre parole: mettiamoci di più gli uni nei panni degli altri! Solo così sarà più facile capire che cosa è giusto fare, come è giusto comunicare, quale sia l’approccio più corretto per risolvere i problemi e le divergenze, quali siano gli atteggiamenti e le risorse cui attingere perché l’esperienza sportiva del proprio figlio sia la più bella e gratificante possibile. In nome della sua crescita umana, al di là del risultato finale e dell’essere o meno un campione ».

E – a parte le questioni tecniche – quali sono le prime tre regole per l’allenatore? «Sono reduce da tre incontri formativi agli allenatori della Federazione italiana pallacanestro. Ebbene, con loro, ma anche con insegnanti e genitori, abbiamo parlato del ruolo educativo del coach, di comunicare in modo efficace, della capacità di essere motivati per motivare il singolo atleta e il gruppo. Filo conduttore, la capacità di ascoltare i tanti segnali che arrivano dai giovani sportivi, ma anche dalle realtà che sono in relazione con i giovani: famiglia, scuola, parrocchie. Anche per gli allenatori, dunque, empatia come regola prima, e poi passione educativa e genuino affetto per i ragazzi, oltre alla necessaria preparazione tecnica – no all’improvvisazione! – chiedendosi sempre: cosa e, soprattutto, quanti ragazzi, sono disposti a sacrificare al “dio” risultato, per sentirmi (non per essere) un allenatore di successo?».

p.r.

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