Ultime notizie

Cannes, il Grand prix a Matteo Garrone e la crisi del cinema a stelle e strisce

Matteo Garrone, vincitore del Grand Prix con Reality (foto Ansa)
Matteo Garrone, vincitore del Grand Prix con Reality (foto Ansa)

Un festival lo si giudica dall’idea di cinema che propone, non dal prestigio dei nomi che mette in cartellone. E in un secondo momento anche dai premi che assegna: la Palma d’oro a Amour di Michael Haneke e il Grand Prix a Reality di Matteo Garrone, oltre a rappresentare per entrambi una doppietta (il primo aveva vinto tre anni fa con Il nastro bianco, il secondo lo stesso premio lo ha ricevuto nel 2008 per Gomorra), è in fondo il segno di un cinema non nuovo nelle forme, ma forte del proprio stile e del proprio sguardo sul mondo.

Un'inquadratura di "Amour", diretto da Michael Haneke, Palma d'oro
Un'inquadratura di "Amour", diretto da Michael Haneke, Palma d'oro

Il film vincitore, diretto da un autore austriaco di nazionalità e francese d’adozione, è un’elegia gelida eppure commovente del sentimento che lega una coppia, un uomo e una donna entrambi molto anziani che vivono serenamente la vecchiaia fino alla malattia di uno dei due e al lento avvicinamento alla morte. Niente patetismi, solo uno sguardo distante e insieme partecipe, vicino all’essenza di un’emozione unica: quella dell’amore che tutto vince e tutto comprende.

Reality di Garrone (del quale abbiamo parlato la scorsa settimana su Gazzetta) è invece un film sull’irrealtà della società dello spettacolo e della tv, in cui l’amore di Haneke si disperderebbe in un sentimento illusorio. Un film contemporaneo, forse fuori tempo massimo (il reality come genere televisivo è superato), che il bravo Garrone gira ripensando a Fellini e ridefinendo la commedia all’italiana.

E il nuovo? A Cannes c’era, riconosciuto da alcuni e rifiutato da altri, non necessariamente migliore o peggiore ma in grado di dare un’idea di cosa sia il cinema oggi. Ad esempio, il geniale Holy Motors, film sull’artificialità dell’esperienza nella società delle macchine; o il dolce Moonrise Kingdom di Wes Anderson, personalissima storia di un struggente amore adolescenziale; il teorico Cosmopolis di Cronenberg, ardua ma spietata riflessione sul capitalismo; o ancora il metaforico e potentissimo In the Fog di Sergei Loznitsa, grande e misconosciuto regista russo autore di un cinema impegnato e rigoroso.

A mancare, esclusi lo stesso Anderson e il giovane Jeff Nichols, è stata proprio l’America: tra le pose sexy della Kidman, l’inutile impegno politico di Brad Pitt o l’on the road di plastica del filmone tratto da Kerouac, la massima potenza culturale del mondo non ha fatto altro che ripetere se stessa e incontrare un generale rifiuto da parte di pubblico e critica. Se perciò rilanciamo per il futuro la disputa su cosa sia meglio, se la professionalità di Haneke o l’ambizione di Carax, è questa la vera novità di Cannes 2012: gli Stati Uniti sono in crisi, e non solo economica. O meglio, la crisi economica è stata così dura da anestetizzare anche l’arte e la cultura.

Teniamola a mente, questa sorpresa in negativo, quando i film premiati a Cannes faticheranno a uscire in multisale invase da prodotti americani inguardabili: ciò che l’industria culturale propone, anzi impone, ai suoi consumatori non è ciò che di meglio viene prodotto. L’arte è soprattutto fatica e ricerca: e un festival serve a qualcosa se questa fatica la riduce e la ricerca la difende.

Roberto Manassero

Banner Gazzetta d'Alba