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La mia vita da cassintegrato

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LA STORIA La speranza che cede il passo alla rassegnazione, la luce in fondo al tunnel che diventa sempre più fioca, fino a spegnersi. Uno di loro se n’è andato – non ce l’ha fatta a reggere la vita – e ha indotto gli altri a riflettere. Alcuni lavoratori Miroglio hanno così deciso di rompere il muro di silenzio e di raccontare a Gazzetta la situazione in cui stanno vivendo, la cosiddetta vita da cassintegrato, fra paure e angosce, con lo spettro del licenziamento dietro l’angolo, con un mutuo che non aspetta e con tante, troppe cose che non tornano.

A parlare per tutti è Piero – non è il suo vero nome –, sposato, con due figli (reali) e un finanziamento (anche quello reale) da pagare ogni mese. «Entrai in Miroglio alla fine degli anni Ottanta; ricordo bene cosa voleva dire, era una garanzia, era il viso sorridente di Franco Miroglio, che ci salutava quasi tutte le mattine chiamandoci per nome, era la speranza di un futuro, di una famiglia e di una casa. Oggi è solo paura. Viviamo con lo spettro dei 60 licenziamenti annunciati entro il 2013 e di altri 100 nel 2014 per uno stabilimento, quello di Govone, che, stando a quello che ci hanno detto, passerà dagli attuali 330 operai a meno di 200 nel giro di 18 mesi». 150 famiglie che vivono nell’angoscia: «Periodicamente ci convocano con alcuni consulenti del lavoro, 4 ore in cui ci spiegano le opportunità fuori dalla Miroglio, proponendoci una piccola buona uscita per arrivare a un nostro volontario licenziamento, con il “contentino” di un lavoro di qualche mese presso altre aziende. È una situazione logorante per persone come me che con il sudore di una vita hanno fatto grande questa azienda nel mondo e che ora si sentono come rami secchi, come un fastidio di cui sbarazzarsi ». La speranza di una fine della crisi si scontra con una realtà di incertezze: «Leggiamo sui giornali che Miroglio non chiude, che vuole essere leader nel tessile, ma ogni mese vengono venduti macchinari o spostati in altri stabilimenti o in Brasile o in Turchia; è anche per questo che ci sentiamo presi in giro, lavoriamo in capannoni con vuoti enormi, come può ripartire la produzione se non ci sono più i macchinari? E se dovesse ripartire la produzione, cosa faremo, li andremo a ricomprare? ». Domande che non trovano risposte e che creano angoscia: «Viviamo così: i responsabili arrivano al mattino, se c’è lavoro ti chiamano, se no resti a casa, si vivono anche situazioni paradossali quando arrivano commesse e non si ha a disposizione il personale oppure quando ci lasciano a casa tutta la settimana e poi chiedono di fare i sabati di flessibilità. Come possiamo continuare a vivere così, in questa situazione?».

Continua Piero: «Ieri ci sentivamo di fare parte di un grande progetto, oggi ci sentiamo numeri. Che eravamo in cassa integrazione ce l’hanno comunicato con una lettera a casa, pensi cosa vuol dire per un uomo con una famiglia, con 30 anni di anzianità in Miroglio, sentirsi telefonare, sul posto di lavoro, e sentirsi dire, dalla propria moglie, che dal prossimo mese non è più necessaria la sua presenza. Dopo tanti anni di lavoro e sacrifici, uno non chiede tanto, solo un briciolo di rispetto».

La situazione attuale, vista dall’interno della fabbrica, resta indecifrabile: «Ad aprile, in molti reparti si è lavorato in media 2 giorni a settimana, maggio è andato meglio, sono stati richiamati molti lavoratori nei reparti “preparazione” e “stampa”, dove però si lavora a chiamata, quindi è impossibile capire quale potrà essere la situazione nei prossimi mesi, l’unica certezza è che anche nei prossimi mesi dovrò pagare il mutuo e trovare un modo per dare da mangiare ai miei figli». Una storia che ne racchiude centinaia di altre e che esige risposte: «Non possiamo continuare a vivere in questo clima, qualcuno deve metterci la faccia e venirci a dire cosa si vuole fare della Miroglio a Govone. Se davvero l’intenzione è di puntare su questo stabilimento, allora si smetta di smantellare tutto prima di raggiungere un punto di non ritorno e prima di portarci tutti all’esasperazione».

Piero spera che si capisca l’angoscia in cui molti operai stanno vivendo in questi giorni: «Vorrei che la famiglia Miroglio leggesse le parole; ho conosciuto Franco ed Edoardo, quest’ultimo ha lavorato come operaio e conosce bene la realtà della fabbrica. Loro hanno messo le idee e i soldi, io ho messo il sudore, ho dedicato a questa azienda i migliori anni della mia vita, perché amo il mio lavoro, chiedo solo questo: di poter lavorare, di poter dire ai miei figli che potrò farli studiare e mandarli all’università. Perché ancora oggi quando mi chiedono: “Dove lavori?”, io rispondo orgoglioso: “Alla Miroglio, io lavoro il tessuto”, è la cosa che so fare meglio: lavorare il tessuto».

Marcello Pasquero

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