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Gianni Farinetti: «I librai potessero, mi ucciderebbero»

Gianni Farinetti: «I librai mi ucciderebbero

INTERVISTA Lo scrittore sarà ad Alba domenica 19 giugno con il nuovo romanzo
Il ballo degli amanti perduti, il nuovo romanzo di Gianni Farinetti appena uscito per Marsilio, offre in apertura, oltre al consueto e impareggiabile catalogo dei luoghi e dei personaggi, anche la musica per i titoli di testa: è Le petit bal perdu, lievissima canzone dolceamara di cui Farinetti accenna il ritornello, suggerendone l’ascolto nella versione principe di Bourvil (maschera comica timida e beneducata nel cinema francese). Sul filo della leggerezza ora francamente comica, ora più lirica e delicata, si muove dunque la vicenda del romanzo, organizzata intorno a un improbabile ballo di capodanno in maschera nel semidiroccato castello di Rocca Bormida (piccolissimo Comune immaginario di un’autentica, venerata alta Langa).

Farinetti presenterà il romanzo ad Alba domenica 19 giugno, alle 18, alla Torre di via Vittorio Emanuele 19, nella giornata in cui ricorrono i quarant’anni anni dell’apertura della libreria.

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Gianni, sono passati vent’anni dal tuo esordio: da allora hai scritto molto, dieci romanzi, racconti, una biografia della Bela Rosin, la sceneggiatura di un fumetto… Cosa pensavi della tua carriera?
«Ah, non avevo idea che sarebbe diventata una carriera. Il primo romanzo è un’incognita, il secondo (se il primo ha avuto successo) una jattura perché tutti ti aspettano col fucile spianato. Dal terzo in poi inizi a rilassarti almeno un po’. E comunque un tizio a una mia presentazione mi disse: “Non male il suo libro. Eh, se io avessi tempo…”. Be’, il tempo me lo sono ritagliato».

Il ballo degli amanti perduti, ambientato in un paese immaginario della Valle Bormida, è ancora una volta (e ancora di più) una dichiarazione d’amore alla bellezza selvatica dell’alta Langa.
«Sì, dopo un lungo girovagare (partendo da Bra e passando da Stromboli) sono approdato a casa. Questa è davvero casa e devo tutto allo studio del più grande degli scrittori del Novecento, Beppe Fenoglio».

C’è sempre una comunità numerosa nei tuoi romanzi, dove si formano legami che superano quelli familiari stretti, e le persone si scelgono.
«Siamo tribù, gruppi, comunità, famiglie. E i peggiori misfatti si compiono sempre in famiglia. In qualunque romanzo sensato se due vivono da soli su un’isola deserta prima o poi uno ammazza l’altro».

I luoghi dei tuoi libri (la Langa, Stromboli, Venezia…) sono sempre preziosi per il tuo protagonista, per motivi umani ed esistenziali, legati a una ricerca della bellezza e di un rifugio dalla corruzione, dal decadimento e dalla cafoneria del mondo: il delitto ogni volta sembra arrivare a mettere in crisi questa preziosità, quasi a sconfessare chi la stia cercando.
«Tutti cerchiamo il nostro luogo, vicino o lontano, voluto o casuale che sia. Il giallo rende ancora più inquietante questa ricerca già bella angosciosa di per sé. In fondo si passa la vita a rimpiangere l’età dell’innocenza. Ovviamente perduta».
Sei etichettato come un giallista, che vuol dire tutto e niente. Quali scrittori tuoi colleghi leggi, se li leggi?
«I librai potessero mi ammazzerebbero perché non sanno mai bene in quale scaffale infilarmi: giallo? Romanzo d’amore? Affresco sociale? Bassa macelleria da spiaggia? Credo che l’etichetta giusta sia romanzo con delitto. Sono un lettore avido ma disordinato, e profondamente emotivo. Posso passare un anno a rileggere tutti i russi (Tolstoj in primis) e poi ficcarmi magari in un giallazzo grondante sangue e serial killer attratto, metti, da una copertina particolarmente raccapricciante. Leggo poco le novità e non per snobismo, direi per distrazione – quando hai tra le mani Anna Karenina, o un Maigret, o madame Bovary, è dura lasciarsi incantare da qualcun altro».
Edoardo Borra

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