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Al premio Roddi i sonetti piemontesi di Giovanni Tesio

Al premio Roddi i sonetti piemontesi di Giovanni Tesio
L'autore del libro Giovanni Tesio.

L’INTERVISTA
“Stantesèt sonèt” sarà presentato sabato nel castello di Roddi
Giovanni Tesio, nato a Piossasco nel 1946, è un critico letterario, professore all’Università del Piemonte orientale e storico della lingua italiana. Il suo ultimo lavoro è il libro di versi Stantesèt sonèt, edito dal Centro studi piemontesi con prefazione di Lorenzo Mondo e postfazione di Albina Malerba, che sarà presentato dal premio Roddi sabato 8 ottobre (ore 18), nel castello.

La sua opera conta 77 sonetti in piemontese. Quale l’origine di queste parole? «L’opera è frutto di un impulso strano e inspiegabile, scoperto senza averlo precedentemente meditato: scrivere in piemontese. Affioravano spontaneamente parole, anche per il fatto che i miei genitori non hanno parlato altro che il piemontese durante la mia infanzia. Mi piace dire che i versi siano aggallati, venuti a galla, in un’età che ormai considero vecchiaia. In seconda istanza ho tentato di inquadrare i versi in quella cassa di risonanza musicale che è il sonetto. Dopo i 77 componimenti poetici che presenterò a Roddi, avendone scritti molti altri, ho intenzione di assemblare un intero canzoniere in piemontese».

Esiste uno scopo alla base del suo lavoro? «L’intento specifico non appartiene alla poesia, che non si propone altro che esistere. Il verso non è contaminabile da qualcosa di strumentale. La mia idea della poesia è che a essa non appartiene nulla se non ruoli gratuiti, liberi da ogni vincolo di servizio, ovvero dalla funzione di “servire a qualche cosa”. Anche se essa fosse una causa nobile. Non è necessario, basta a sé stessa. La poesia è la casa della possibilità. Si può far dire tutto a lei, ma non renderla strumentale a qualche obiettivo che uno debba o voglia raggiungere. È esistita una poesia didascalica, eroicizzante, politica. Ma ritengo che essa non si concili con queste visioni di tipo per così dire utilitaristico».

La scelta di scrivere in dialetto traccia una linea diretta tra l’autore e il luogo in cui è nato. «Il paese della mia infanzia, la mia “cova”, è stato Pancalieri e non Piossasco. Pancalieri, la città della menta piperita. È lì che entrai in contatto col piemontese. I sonetti nascono dalla parlata locale di quel luogo, imparata in casa. È conservativa, le parlate rurali sono così, non quella di città. Sono sempre stato studioso di letteratura e mi considero una sorta di bacialé della parola piemontese. Tento di realizzare matrimoni possibili e impossibili, mettere insieme parole che già conoscevo a quelle studiate dagli autori».

Insomma, la parola non può prescindere dalla fisicità e dalla realtà in cui è generata. «Il linguaggio dialettale che utilizzo deve radicarsi in un luogo, deve scaturire da un luogo vero, geografico, antropologico. Direi così: cerco di radicare la parola nel luogo che me l’ha detta».
Pensa che la poesia sia per élite o accessibile a tutti, un linguaggio universale? «La poesia è materia infiammabile, difficile da manovrare. Non voglio dire cose enfatiche o retoriche, ma è una bomba a orologeria, va trattata con garbo».
Matteo Viberti

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