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Gli anni del giudizio per l’anno di Arpino. A palazzo Mathis la presentazione

A Bra e dintorni inseguendo le tracce di Giovanni Arpino

BRA A quasi sessant’anni dalla sua uscita, torna in libreria per i tipi di Araba Fenice Gli anni del giudizio di Giovanni Arpino, opera che l’autore considerò sempre il suo vero esordio letterario e che sarà presentata oggi, sabato 9 dicembre alle 17 nella sala nobile di palazzo Mathis.

La ristampa del romanzo è preceduta da un’ampia prefazione di chi scrive, che ricostruisce ed evidenzia quanto di Bra e dei braidesi sia rintracciabile nel romanzo. Per quanto attiene alle coordinate temporali, la storia si esaurisce in una manciata di giorni a cavallo tra maggio e giugno 1953, al termine della febbrile e talvolta scalcinata campagna elettorale tesa a impedire l’entrata in vigore della legge truffa. La trama si sviluppa in quella Bra, allora declinante «regina di cuoi» che, scrive Arpino, «ha oltre una dozzina di chiese, è nata nell’onda industriale dell’800 piemontese, con filande e concerie, sta alla punta estrema delle Langhe, tentò invano di mantenere una squadra di calcio in Serie C, è democristiana al 90 per cento, spedisce calzolai e conciatori in tutto il mondo».

Per quanto mai citata, Bra con le sue strade e attività è lo scenario, immediatamente riconoscibile, in cui è ambientato Gli anni del giudizio: dalla «piazza del Municipio, tutta pietre, con la statua del beato Cottolengo circondata al venerdì, giorno di mercato, dai banchi dei negozianti di stoffe e di sandali» alle «chiese che suonavano con fitti scampanii i quarti, le mezze ore, i tre quarti e le ore», passando per «il viale al fondo della città dov’era la strada che portava a Torino e si respirava aria di campagna». E ancora, via Vittorio Emanuele II e via Cavour con, la domenica, «gruppi di uomini fermi davanti ai tre caffè e alle due pasticcerie del centro». E, poco oltre, le colline, con «case tirate su da mani artigiane, case con balconi di cemento a ghirigori, con statue di gesso, cancelli fioriti, angoli pieni di mattoni ancora nuovi e gabbie per conigli». Questo il contesto in cui si muovono Braida e la sua parte, titolo originario del romanzo.

Ma da chi era costituita la «parte» di Ugo Braida, protagonista del romanzo? «C’erano conciatori, calzolai, vecchi già pensionati e giovani garzoni che Ugo Braida conosceva appena di vista. C’erano i pochi contadini di chiara fede. La domenica arrivavano in città, lasciavano i carri, le motociclette, le biciclette nelle osterie con stallaggio e andavano in sezione con la speranza di ascoltare buone notizie». Costoro, i protagonisti e i comprimari del romanzo, per quanto frutto della creatività dell’autore, richiamano alla mente nomi e volti ben noti ai vecchi braidesi. Dietro Ugo Braida, fa capolino il militante Carlo Bonsignore, ex partigiano, segretario della sezione del Pci, meccanico alle officine ferroviarie di Torino. Uno dei mille e più braidesi che pendolavano sul capoluogo, partendo all’alba per tornare la sera, giusto in tempo per conquistare il letto, «impiombandosi subito nel sonno spesso di chi ha le ossa rotte da treni fabbrica e mangiare sullo stomaco».

Sul fronte opposto, nel campo democristiano, si stagliano, tra le altre, le figure del senatore Giovanni Sartori – «il grosso industriale che fa vento e pioggia nella provincia» – e don Giacomo Gandino, che era stato eroico cappellano partigiano.

Nelle pagine del romanzo si avvertono le voci, le speranze e le paure di una intera città di provincia. Lo riconobbe Arpino stesso, quando esplicitò che tale storia «la dovevo a molte persone, forse a una città intera. Era una storia con diciottomila dediche». Una per ognuno degli abitanti che aveva allora Bra.

Su Gazzetta d’Alba tutti gli appuntamenti in omaggio all’anniversario della scomparsa dell’autore braidese.

Fabio Bailo

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