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Gli operai di Verduno vanno a cena da Ceretto

ALBA Una sera per lasciarsi alle spalle oltre dieci anni vissuti in un container: 2 metri per 3, al freddo, a centinaia di chilometri da casa. Una cena che difficilmente dimenticheranno i trasfertisti del cantiere dell’ospedale di Verduno, quella a cui sono stati invitati il 15 gennaio dal consiglio di amministrazione della fondazione Nuovo ospedale Alba-Bra, capitanato dal presidente Bruno Ceretto, nel ristorante La piola di piazza Duomo ad Alba.

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Ceretto spiega: «Tutto nasce da una lettera pubblicata da Gazzetta d’Alba. Martedì 11 dicembre il sindacalista della Filca-Cisl mi invitava, tramite il settimanale, a ricordarmi degli operai del cantiere di Verduno, coloro che tra difficoltà e sofferenza hanno costruito concretamente il nosocomio. Venendo a conoscenza delle condizioni in cui vivono, ho proposto al vicepresidente Dario Rolfo, al direttore Luciano Scalise e a tutto il consiglio di amministrazione della fondazione di offrire almeno una cena. La proposta è stata subito accolta e autotassandoci abbiamo deciso di ospitarli alla Piola».

L’invito è stato accolto con entusiasmo e tanta allegria. La serata è trascorsa tra piatti, selfie e sorrisi: «Vogliamo che raccontiate questa terra ai vostri figli e nipoti e, se tornerete, lo dovrete fare con un sorriso e un bel ricordo, sapendo che vi accoglieremo come amici», ha concluso Bruno Ceretto al termine di una cena che – al dire dei lavoratori dell’Alba-Bra Scarl (ex Matarrese) Riccardo Addario, Cosimo Papapicco, Alessandro Vallese, Nicola Di Bari e Giuseppe Cerraro, ma anche per quelli della Mgc Mario Pioggia, Francesco Mura, Marius Prelipcean e Dame Ndoye – rimarrà indimenticabile.

Marcello Pasquero

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Vita in container: in pochi metri, lontani da casa e al freddo

Li abbiamo ascoltati gli operai del cantiere di Verduno: sono storie di vita, lavoro e sacrificio di cui i muri del nosocomio trasudano.

Alessandro Vallese, 47 anni, è un messinese trapiantato a Foggia, nel cantiere fin dai primi giorni. Trasfertista “pentito”, dopo aver passato molti anni nei container del cantiere, ha conosciuto una ragazza di Sommariva del Bosco con cui convive ed è intenzionato a mettere su famiglia. «Famiglia è una parola che assume un significato particolare quando vivi in una baracca 2 metri per 3. I rapporti con i familiari della Puglia vengono gestiti al telefono. In quei pochi giorni – ogni due o tre settimane che trascorrevo prima a casa – mi trovavo a recuperare tutto quello che non ero riuscivo a fare lavorando qui. La famiglia è la mancanza più grande, ma i colleghi con il tempo diventano amici e riescono a rendere meno pesante la distanza». Quando si concluderà il cantiere?, gli abbiamo chiesto: «Penso in tarda primavera. Se da una parte sono felice, dall’altra avrò un problema, perché dovrò cercarmi una nuova occupazione e spero che questo territorio me la possa offrire, perché voglio rimanere

Riccardo Addario di Andria, nato nel 1963, sposato con tre figlie: «Sono arrivato in cantiere il 9 dicembre 2008, quando si vedevano appena le fondamenta dell’ospedale. È stata mia moglie in questi anni a crescere le nostre figlie. Sono felice di averla sposata, è stata una donna e madre esemplare, che mi è mancata tremendamente negli anni passati in container», spiega Riccardo, che precisa: «Alla fine ci si abitua anche a stare in pochi metri, ci si abitua al freddo, ma non alla distanza e a non avere vicine le mie ragazze». Anche a lui abbiamo chiesto quando l’ospedale potrà aprire: «Credo non prima di un anno. Anch’io come Alessandro spero di trovare un nuovo lavoro in questa zona che nel tempo è diventata una seconda casa per me».

Cosimo Papapicco di Bitonto (Bari), 55 anni, sposato due figlie e due nipotine: «Sono stato uno dei primissimi ad arrivare in cantiere il 4 novembre 2008. Ricordo la neve e grandi difficoltà ad ambientarmi. Purtroppo, con il tempo e la distanza i rapporti familiari tendono a essere meno saldi e con molto dispiacere constato di aver perso molti amici», commenta Cosimo che precisa: «Le baracche del cantiere hanno fatto il loro tempo, vivere all’interno per molti anni è stato veramente duro. Non so quando finirà il cantiere, nell’arco di 5 o 6 mesi, spero. Confido in un nuovo lavoro per il futuro, ma le sensazioni sono negative, viste le vicissitudini della Matarrese che non ha obbligo di reintegrarci. Vorrei comunque ritornare un giorno in questo territorio e farlo conoscere ai miei nipoti».

m.p.

Gli operai di Verduno vanno a cena da Ceretto

Il sindacalista Biasi: quando Matarrese licenziò tutti i dipendenti

A scrivere a Gazzetta, chiedendo di non dimenticare i lavoratori del cantiere di Verduno, è stato il sindacalista Filca-Cisl Francesco Biasi, che racconta gli anni dal 2015, quando ha iniziato a occuparsene. «Abbiamo vissuto momenti difficili. Le prime avvisaglie si sono avute con il rallentamento degli stipendi. Siamo stati costretti allo sciopero, ben documentato da Gazzetta, per il mancato pagamento di tre mesi. Per me è stata davvero l’assemblea più difficile in 26 anni di attività sindacale. Ho visto le lacrime solcare il viso di molti. Non tanto per un ulteriore sacrificio, ma per dover dire alla famiglia, lontana più di mille chilometri, che i sacrifici dovevano continuare senza nemmeno la possibilità di un abbraccio».

Appena risolto un problema, un altro ancora più grave: «Recuperati gli stipendi arretrati, arriva un’altra batosta. Sono finiti i soldi per continuare l’opera, nonostante l’Asl Cn2 avesse pagato le competenze. Immediata, dalla società Matarrese, per cui lavorano gli operai, arriva la lettera per il licenziamento collettivo di tutti i dipendenti, impiegati compresi. Seguono mesi di trattative in Regione per salvare i posti di lavoro. Ci riusciamo con la cassa integrazione per 12 mesi. Il cantiere rimane fermo, con due soli operai per la sicurezza. Si riprende a lavorare solo nel luglio 2017, con una nuova spinta dalla Regione e una nuova società, ma il problema dei versamenti in cassa edile e degli stipendi rimane: arrivano in ritardo di 20-30 giorni anche oggi. Tra alti, pochi, e tanti bassi, siamo ancora qui per finire quello che questi ragazzi hanno iniziato», conclude Biasi.

m.p.

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