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Se i pericolosi invasori della fortezza Europa sono 49 immigrati

Pura barbarie. Una vergogna per l’Italia e l’Europa intera. Con un disumano rimpallo di responsabilità sulle pelle di 49 immigrati.  “Poveri cristi” in balia delle onde dal 22 dicembre dello scorso anno. Una lunga odissea che ha varcato Natale, Capodanno ed Epifania, tra freddo, cibo razionato e disagi vari. A bordo della Sea Watch e Sea Eye, navi Ong che li hanno soccorsi in mare, anche minori non accompagnati, due bambini piccoli e un neonato. Porti sbarrati per settimane, in Italia e in Europa, a questi “pericolosi invasori”! Ora, finalmente, s’è messo fine a questa vergogna. Con un permesso di sbarco a Malta. Un intero continente, con più di 500 milioni di cittadini, non sa farsi carico di poche decine di immigrati. La “fortezza Europa” affoga nelle sue contraddizioni. Tra egoismi e nazionalismi. Un durissimo colpo alla sua credibilità ed esistenza. Una vera delusione per chi, credendoci, vorrebbe rilanciarla con un volto più unitario e solidale. E tutto ciò a pochi mesi dalle elezioni europee. Vero spartiacque per il futuro del continente.

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Migranti sbarcati a Malta

A scuotere le coscienze, ancora una volta, un accorato appello di papa Francesco. Ai leader europei, nel giorno dell’Epifania, ha chiesto “concreta solidarietà” per questi migranti: «Non permettiamo alle nostre paure di chiuderci il cuore, ma troviamo il coraggio di aprirci ai fratelli e alle sorelle che hanno bisogno di aiuto». E ai diplomatici accreditati in Vaticano, negli auguri d’inizio anno, ha ricordato: «Non si può risolvere la sfida della migrazione con la logica della violenza e dello scarto, né con soluzioni parziali». E ha invitato i Governi  a prestare «aiuto a quanti sono dovuti emigrare a causa del flagello della povertà, di ogni genere di violenza e di persecuzione, come pure delle catastrofi naturali e degli sconvolgimenti climatici, affinché si facilitino le misure che permettono la loro integrazione sociale nei Paesi di accoglienza».

A fargli eco tutta la Chiesa italiana, che s’è resa disponibile ad accogliere. Come già aveva fatto, in passato, per l’analoga vicenda della nave Diciotti. La diocesi di Torino ha messo a disposizione le sue strutture. «Ci pare estremamente necessario», ha detto l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, «lanciare un segnale preciso alle autorità istituzionali italiane e degli altri Paesi europei sul significato dell’accoglienza». Appoggiato dal presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Vincenzo Paglia, che ha ammonito: «Quando la paura di perdere i voti è superiore all’amore e alla solidarietà, la società si imbarbarisce».

Don Antonio Sciortino
Don Antonio Sciortino

Da parte del Governo italiano, per giorni, soltanto risposte confuse e contraddittorie. Con scarso senso di umanità e civiltà. E tanto cinismo politico. A riscontro di profonde divisioni interne e logiche propagandistiche. In vista delle imminenti votazioni regionali in Abruzzo e in Sardegna. E di quelle europee a maggio. Un penoso balletto di numeri  e dichiarazioni. Dalla chiusura totale dei porti italiani, ribadita dal ministro dell’interno, alla disponibilità dell’altro vicepremier Di Maio, ma soltanto per le donne e i bambini, fino all’apertura del premier Conte per quindici immigrati, salvaguardando i nuclei familiari.

Apertura lodevole, ma solidarietà tardiva. Poco credibile, dopo due settimane di totale indifferenza. Inamovibile, tuttora, il ministro dell’interno Salvini, che si arroga il diritto di decidere da solo. E di imporre la sua linea: «Quanti migranti accogliamo? Zero. Abbiamo già dato». In un braccio di ferro col premier Conte e a dispetto dell’intero Governo, che  subisce tanta arroganza. È la perfetta immagine di un’Italia “confusa”, “rancorosa” e “incattivita”. Che sfoga la sua rabbia su un facile capro espiatorio: gli immigrati. Fenomenale “arma di distrazione di massa” per distogliere l’attenzione da una politica governativa fallimentare sui fronti più vitali del Paese. Dalla povertà alla disoccupazione dei giovani. Come emerge dall’ultimo Rapporto Censis.

È un’Italia del rancore che si esprime in gesti quotidiani di inciviltà e disumanità. Come quello del vicesindaco leghista di Trieste, Paolo Polidori, che getta in un cassonetto coperta e vestiti di un senzatetto. Vantandosene, soddisfatto, sui social: «Trieste pulita. Tolleranza zero». Con un’aggiunta velenosa: «Sono andato subito a lavarmi le mani». In un Paese civile avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. E non essere assolto. Come ha fatto il suo sindaco che l’ha “coperto”, dichiarando chiuso il caso e le polemiche. Ma la vergogna resta, non si cancella per “decreto”.

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A parziale riparazione, alcuni triestini hanno rimpiazzato coperta e maglioni. E su un cartone hanno impresso la loro solidarietà: «Caro amico, speriamo che questa notte tu soffra meno il freddo. Ti chiediamo scusa a nome della città di Trieste». Ironia della sorte, l’autore dell’esecrabile bravata contro il clochard verrà multato dalla Polizia municipale di cui è responsabile. Nella foga xenofoba ha gettato coperta, piumino e bottiglietta di plastica nel cassonetto dell’indifferenziata. Lasciandosi inchiodare dalla foto che lui stesso ha pubblicato sui social. Giusta punizione per la legge del contrappasso.

Ma c’è un’Italia insofferente a tanto rancore e disumanità. E che reagisce al decreto sicurezza e immigrazione del ministro dell’interno Salvini. Per primi i sindaci di due grandi città: Leoluca Orlando a Palermo, che ha definito il decreto «disumano e criminogeno, che sa di odio razziale»,  e Luigi De Magistris a Napoli. Hanno poi aderito alcuni presidenti di Regione, dal Piemonte alla Calabria, sollevando questioni di incostituzionalità. Per l’Anci (l’Associazione dei Comuni italiani)  il decreto è “una sciagura inapplicabile”. Aumenterà il numero dei clandestini e creerà maggiore insicurezza. Il contrario di quanto si voleva ottenere col pugno di ferro salviniano.

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Leoluca Orlando, sindaco di Palermo

Anche la Chiesa si è espressa, con parole ferme, a difesa dei diritti umani. E contro leggi ritenute ingiuste. Il cardinale Angelo Bagnasco, ex presidente della Cei, ha evocato il diritto all’obiezione di coscienza. E altri vescovi l’hanno appoggiato. Tra questi, monsignor Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che ha invitato a «non rimanere in silenzio dinnanzi a disumani decreti che aggravano la sofferenza di chi è vessato da povertà e guerra». E monsignor Bruno Forte, teologo e arcivescovo di Chieti-Vasto, che ha detto: «C’è un primato della coscienza che esige la solidarietà verso i più deboli. Se si dimentica questo, ogni barbarie diventa possibile». E alla presunzione del leader leghista, che afferma di avere i cattolici dalla sua parte, ha ribattuto: «Sarebbe bene che il ministro Salvini non si mettesse a dare lezioni di magistero, per quello c’è il Papa che lo fa molto bene e con chiarezza. Se vuole fare il cattolico, ascolti il Papa. Il ministro dell’interno ha responsabilità importanti, parli di cose di cui è competente. Del resto, allarmismi e denunce di invasione sono falsità propagandistiche dannose a tutti, tranne a chi le usa per vantaggi elettorali».

Durissima la critica della Conferenza episcopale siciliana: «Il cuore si stringe e geme, ma anche la mente non capisce: un animale in questo momento arriva a valere di più, in protezione, di un fratello nel quale il credente sa che c’è la visita stessa di Dio!». Contro le storture del decreto sicurezza sono intervenuti vari movimenti cattolici. La Comunità di sant’Egidio, per bocca del suo presidente Marco Impagliazzo, ha evidenziato come «il decreto avrà l’effetto di aumentare il numero degli irregolari, proprio quell’area in cui prospera l’insicurezza che si vorrebbe contrastare». Infine, sull’obbligo di dover rispettare, comunque, una legge della Stato, monsignor Perego, già presidente di Migrantes, ha ricordato che è giusto «fare obiezione di coscienza di fronte a un decreto che non tutela la vita delle persone». A distanza di anni, potremmo doverci vergognare d’aver varato e fatto applicare il decreto Salvini. Alla stessa stregua delle leggi razziali fasciste, di cui 70 anni dopo non s’è fatta sufficiente ammenda.

Ma il capolavoro dell’incompetenza e presunzione del Governo gialloverde è la famigerata “tassa sulla bontà”. Di cui, ora, nessuno si assume la paternità. Nella legge di stabilità (un testo che neppure chi l’ha votato ha letto o potuto leggere) è stata raddoppiata l’Ires al Terzo settore e al mondo del volontariato. Quella “ricchezza sociale” che tiene in piedi il Paese, con 340mila enti, oltre 5,7 milioni di volontari e più di 800mila occupati (dati Istat 2015). È come aver sparato sulla Croce rossa. Dilettantismo masochista. Il Governo del cambiamento, che vuol essere vicino ai poveri e vara il reddito di cittadinanza, tassa chi i poveri li aiuta davvero e da sempre. Senza ricavarne profitto. All’autore del provvedimento andrebbe assegnato il Nobel della stoltezza!

L’assurdità non poteva passare inosservata. Ha suscitato proteste e indignazione. A ogni livello del mondo ecclesiale e civile. Non potendo – com’è consuetudine – scaricare la responsabilità sui Governi precedenti o sui burocrati dell’Europa, la “forzata” coalizione gialloverde ha dovuto recedere dal provvedimento. Così, Di Maio ha promesso «una correzione alla prima occasione». E il premier Conte ha dichiarato: «Provvederemo quanto prima, a gennaio, a intervenire per riformulare e calibrare meglio la relativa disciplina fiscale». Purtroppo, non c’è un impegno scritto. A molti resta il dubbio che, comunque, non si ritornerà alla situazione di prima. Il Terzo settore ne uscirà segnato e indebolito. Oltre che, inutilmente, umiliato.

L’odiosa tassa sul non profit ha indisposto anche il presidente della Repubblica. Nel discorso di fine anno, Mattarella ha chiesto, esplicitamente, di evitare «tasse sulla bontà». «Il nostro è un Paese ricco di solidarietà», ha ricordato. «Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni… È l’Italia che ricuce e che dà fiducia».  E ha aggiunto: «Sentirsi comunità significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri… Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri». Non è buonismo. Tanto meno la retorica dei buoni sentimenti. La sicurezza si ottiene garantendo i valori positivi della convivenza: «Una politica responsabile e lungimirante non alimenta le paure, non dà spazio alla logica del nazionalismo, della xenofobia, della guerra fratricida».

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L’ampio consenso che il presidente Mattarella ha riscosso in Tv e sui social, e il caloroso applauso che i milanesi gli hanno tributato alla Scala di Milano, segnalano voglia di unità e conciliazione. C’è un “altro” popolo, più moderato e solidale. Che non è quello di Salvini, il “felpato” ministro dell’interno. È il popolo della bontà e dei buoni sentimenti, insofferente di fronte a tanta disumanità e rozzezza politica. Inconcludente e dannosa. Un popolo estraneo agli estremismi. E che vorrebbe vivere a “Felicizia”, luogo immaginario dove l’amicizia è la strada per la felicità. E di cui Mattarella è cittadino onorario, grazie ai bambini dell’Arsenale della pace di Ernesto Olivero che, a Torino, gli hanno assegnato tale riconoscimento. Il bene è più contagioso del male. Basterebbe solo provarlo. Un’altra Italia è possibile. Ce n’è tanto bisogno. L’urgenza è pari alla necessità.

Antonio Sciortino,
già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale

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