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Arte sul Tanaro con Gian Piero Viglino

Sul Tanaro con Gian Piero Viglino 1
Giampiero Viglino

IL LIBRO Il titolo Avrei voluto avere una barca, per chi lo ascolta per caso, ha qualcosa che richiama i giochi dell’infanzia, o i temi che a scuola, almeno una volta, venivano detti “liberi” in alternativa a quelli (chissà perché) di storia o letteratura. Il caso in questione, però, è diverso: sebbene conservi nelle sue pieghe libertà poetica e gioco di immaginazione, si fonda su un dato biografico concreto e duro – qualcosa con cui dover fare i conti dopo un lungo andare, e che ha trovato ricomposizione e soluzione in un fatto artistico.

Sul Tanaro con Gian Piero Viglino 1
Gian Piero Viglino

Alla fine di giugno dello scorso anno, Avrei voluto avere una barca è stata infatti una performance dell’artista Gian Piero Viglino, doglianese originario di Alba (dov’è nato nel 1951): insieme a un nucleo di amici che si sono fatti con lui armatori, ha costruito in una radura in riva al Tanaro, ai piedi dei calanchi di Farigliano, appunto una grande barca, servendosi di rami e detriti legnosi portati dai movimenti del fiume. Uno scafo compiuto e simbolico, sullo sfondo di una quinta naturale che veniva incorporata, come suggestiva velatura, nel disegno. Quel che oggi si dice, per convenzione, un’opera di land art; ma fuor di catalogazione, era senz’altro un’arca, in cui salvare dal disastro, dall’impermanenza, dall’oblio i ricordi e tutti gli attimi (affetti, pensieri, visioni) che hanno concorso a costruire ciò che per ognuno conta davvero, in cui si cerca senso e giustificazione. Dentro e intorno allo scafo, Viglino aveva disposto una serie di sue opere, di diverse tecniche e materiali; piantata nel terreno, a far da contraltare, una vecchia porta (telaio e anta) semiaperta lasciava scorrere via una flottiglia di barchette colorate, liberate, perdute.

Un allestimento, una rappresentazione, che volutamente rimetteva in scena e affrontava un passaggio cruciale della biografia dell’uomo e dell’artista: l’alluvione del novembre 1994, che investì la cascina nella frazione Moriglione di Novello dove all’epoca Viglino abitava con la moglie, e dove aveva il suo studio, il suo archivio, la sua biblioteca. La coppia si salvò fortunosamente e pericolosamente, come in un naufragio; la casa e vent’anni di lavori, documenti, libri furono travolti e perduti.

Sul Tanaro con Gian Piero Viglino

Avrei voluto avere una barca è perciò un titolo che si può prendere alla lettera; ma che viene spostato dal linguaggio dell’arte su piani simbolici, e che ha reso la performance dello scorso anno una sorta di rito, «per fare pace col fiume». Riprendiamo questa estrema, chiarissima definizione dal bel libro appena uscito, una «edizione speciale» che, sotto lo stesso titolo, racconta – con le immagini delle opere, con fotografie e scritti e dediche di affettuoso saluto – questa stessa storia. Lo si può considerare un necessario documento del “rito” di pacificazione, andando a ritroso, come la ricostruzione del percorso dell’artista. Che non è spiattellato in maniera solenne o burocratica (il famigerato, sempre difficilissimo profilo biografico di mostre e cataloghi): non ci sono neppure, in senso stretto, dei ritratti fotografici “di servizio” dell’autore, che là dove (raramente) compare, è di spalle, di taglio, intento a dipingere o costruire. Viglino manda avanti le sue opere; e facendosi da parte, chiede con esse un rapporto non obbligato, autentico, personale.

Perciò in questo libro bisogna entrare mettendosi in ascolto, sommando i tasselli sparsi nei testi, nelle date e nei titoli delle opere, nella ricorrenza di temi e figure chiave, nell’evoluzione del segno, nella meditazione sul colore. È un’esperienza notevole, anche per l’allestimento stesso del volume: in grande formato si concede soluzioni tecniche e dettagli grafici (pagine pop-up, inserti ripiegati, tavole incollate, calligrammi…) che sono altrettante sorprese, giochi, infrazioni dell’ordinario; e testimoniano non soltanto la cura, ma – crediamo – il clima e l’affetto di chi vi ha partecipato.

Intorno ad Avrei voluto avere una barca si ritrovano infatti amici artisti di varia data di Viglino: è la somma delle loro voci a circostanziare a tratti il racconto delle opere, a rivelare dettagli che ci accompagnano tra le Langhe e Torino, Chatwin e Pavese, tra i gessi della «prima stagione di successo» alla serie dei Blues con animali (e forse c’è anche l’anatra tuffatrice chiamata proprio Moriglione, «dai bellissimi e ipnotici occhi gialli», come la descrive Daniele Guolo); dagli ovali delle Annunciazioni-Apparizioni alle tavole verniciate quadrate; dagli Angeli ai Ponti; da In direzione ostinata e contraria, scatola (boîte?) perforata con frammenti dipinti su foglie ai bastoni di Il testamento di Tito di De André, alle fotografie che documentano la costruzione di una torre-gabbia dal titolo di sapore ironicamente galliziano (Impossibile imprigionare l’ombra malefica del noce).

Le voci e le presenze degli amici (capitanati da Filippo Bessone, già fondatore dei Trelilu, oggi padre Filip nei teatri) ci invitano a cercare ad ogni pagina il «silenzioso acrobata» e «mago», il «corsaro» e «visionario», il «musicista», il ricercatore giunto alla «pelle pittorica assoluta», che venticinque anni dopo ha fatto pace con il fiume.

Edoardo Borra

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