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Sanremo 2020, la nostra intervista al vincitore Diodato

Diodato, quando la canzone ha un ruolo sociale

Durante l’ultima edizione di Collisioni Gazzetta d’Alba aveva intervistato in esclusiva Diodato, vincitore del Festival di Sanremo 2020. Ecco cosa aveva dichiarato il cantautore

Il suo ultimo singolo, Non ti amo più, è uscito da qualche settimana, preludio del nuovo album. A febbraio ha convinto pubblico e giuria al Festival di Sanremo con Adesso, in coppia con Roy Paci. Due brani diversi, ironico il primo e introspettivo il secondo, accomunati dalla penna e dalla voce di Antonio Diodato, in arte solo Diodato.

Classe 1981, nato ad Aosta ma originario di Taranto, dove è tornato a vivere per diversi anni, è uno dei cantautori più interessanti della scena italiana. Sul palco Rosa di Collisioni, questo sabato, si è raccontato di fronte a un pubblico variegato: da un lato i suoi fan, con in mano telefonino per i selfie e taccuino per gli appunti, e dall’altro chi si è fermato ad ascoltarlo tra una degustazione di vino e il concerto di Al Bano.

«Non lo conoscevo, ma dice cose interessanti», dice un uomo sulla cinquantina di Torino, con in mano un poster del cantante di Cellino San Marco. Sì, perché Diodato è una voce che non si nasconde, senza perdere la sua pacatezza: «Penso che la canzone debba tornare ad avere un ruolo sociale, anche se non è facile in un mondo in cui solo chi urla riesce a farsi sentire, a partire dalla politica», ha affermato. La sua parte la sta già facendo da sei anni, come direttore artistico del concerto del primo maggio a Taranto, a fianco dei lavoratori del Sud, per denunciare e non dimenticare ingiustizie e disastri, a partire dall’Ilva.

Antonio, a che punto del tuo percorso artistico pensi di essere arrivato?

«Credo che questo sia per me il momento di raccogliere frutti, non in giardini esterni, ma dentro di me. Sento di aver trovato un certo equilibrio nella scrittura: ho voglia di scrivere tante canzoni, sperando che l’ispirazione non mi lasci. Di certo c’è che il mio nuovo album è quasi pronto e ho già altri progetti in cantiere».

Cosa significa essere un cantautore nel 2019?

«Penso che significhi prima di tutto avere una grande opportunità, soprattutto in un momento come il nostro. Rispetto a qualche anno fa, siamo in un buon periodo, perché siamo seguiti da pubblico giovane che in passato non c’era: c’è stato un ricambio generazionale molto positivo. Per questo penso che un cantautore abbia tra le mani la possibilità di esprimere sé stesso al massimo e di tracciare una strada, che non deve per forza rifarsi alla vecchia scuola del cantautorato italiano. Abbiamo già avuto miti come Fabrizio De André e abbiamo ancora grandi nomi come Vasco Rossi: sono convinto che i giovani debbano evitare i rifacimenti. In Italia stanno nascendo nuovi linguaggi che mi piacciono molto».

Hai una scrittura molto originale: come nascono i tuoi testi?

«A volte partono da un’immagine, altre volte da una sensazione. In generale, quando inizio a sviluppare un’idea, lavoro sul distruggere tutte le sovrastrutture della prima stesura. È raro che la scrittura di un testo sia un flusso improvviso: al contrario, spesso prima di arrivare alla versione definitiva ci vuole tempo e si rischia di aggiungere troppo materiale. Sono un perfezionista: cerco di ripulire la canzone eliminando il superfluo e allo stesso tempo sporcandolo un po’, in modo da non perdere il seme iniziale».

Da sei anni sei il direttore artistico dell’“Uno maggio” di Taranto: che cosa ti ha spinto a impegnarti in prima linea in questa causa?

«È qualcosa a cui tengo molto, che mi arricchisce tantissimo, anche se è molto faticoso organizzare un concerto come quello. Quando abbiamo iniziato, sembrava impossibile poter mettere in piedi un evento all’altezza del primo maggio a Roma: era come andare in bicicletta su Marte. A ogni edizione è qualcosa di molto potente, per i tarantini e non solo, un modo per sentirci meno soli: la musica può essere un grande megafono, per denunciare situazioni insostenibili».

Francesca Pinaffo

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