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Cesare Pavese, il classico non bada alle mode

Nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 la morte di Cesare Pavese

SANTO STEFANO BELBO Sono passati quasi settant’anni dal 27 agosto 1950, il giorno in cui Cesare Pavese si tolse la vita in una camera dell’hotel Roma di Torino. Da allora è stata prodotta una mole di studi a scandagliare il valore letterario delle opere pavesiane, ma anche numerosi pettegolezzi biografici, che lo scrittore avrebbe odiato. Nell’anniversario, importante anche perché scadranno i diritti d’autore, Franco Vaccaneo ha ripercorso le sorti dello scrittore di Santo Stefano Belbo, i luoghi amati e le opere scritte in quella che definisce «una sorta di ricapitolazione conclusiva di una lunga fedeltà allo scrittore».
Dopo una carriera dedicata a Pavese, Vaccaneo ha infatti voluto dedicargli un nuovo ritratto in Cesare Pavese. Vita, colline, libri, in uscita tra qualche settimana per Priuli e Verlucca. Grazie a numerose testimonianze, alcune pubblicate per la prima volta, altre ripescate, emerge una figura complessa, un autore «indifferente alle mode che passano», inattuale già per i suoi tempi, tanto sfuggente da diventare fin da subito un classico.

«Un marziano a Torino», lo definisce il nipote Maurizio Cossa nel racconto inedito in appendice: Cesare Pavese era un alieno anche nella vita di tutti i giorni, in quell’alloggio torinese di via Lamarmora che condivideva con la sorella, il cognato e le due nipoti. «So che Pavese parlava poco con i congiunti.
A volte a pranzo teneva il giornale aperto sul piatto. Nessuno doveva disturbarlo. Non sono mai riuscito a capire se in famiglia il suo genio venisse fuori, se si discutesse talvolta di politica. Ed erano gli anni cruciali tra il fascismo, la Costituente e la Repubblica».

Un intellettuale che frequentava Leone e Natalia Ginzburg, Fernanda Pivano e Bianca Garufi, che spesso passavano a trovarlo, sembrava stonare nel sobrio ambiente di una famiglia della piccola borghesia. Ma in realtà Cossa confida che «un giorno con la nonna Maria tirammo fuori da una vecchia scatola le fotografie della bellissima Connie, l’americana: compresi che Pavese assomigliava molto di più al piccolo mondo antico della sorella o di Pinolo Scaglione, che non a quel mondo appariscente ma artefatto del cinema. Anche l’ambiente dei premi letterari gli era francamente estraneo».
«Era più a suo agio con i contadini della Langa, anche se di cultura infinitamente più modesta». Quel mondo contadino, di cui condivideva valori come l’austerità e il lavoro, lo aveva affascinato tanto da bambino da cercare poi di descriverlo nelle sue opere. Anche se non riuscirà mai a sentirsi veramente parte di quei luoghi, così da affermare in una lettera a Nicola Enrichens: «Io amo Santo Stefano alla follia ma perché vengo da molto lontano». Pinolo Scaglione, Nuto, fu forse il tramite principale per cercare di comprendere a fondo i segreti di quella terra. Nelle pagine di Vaccaneo, Nuto racconta come Pavese preparò il celebre romanzo La luna e i falò: «Per scrivere questo libro è venuto due o tre volte più del solito a Santo Stefano. Ha voluto sapere da me la storia di tutte queste case: ci siamo fermati durante una passeggiata su un colle, il Brich di Min. Giunto su questo colle, mi invita a raccontare qualche cosa di questi posti. Cesare prende una matita e un foglio di carta: fa un circolino e tante ramificazioni, a mano a mano che io parlavo, faceva una lineetta. Mi ha lasciato parlare parecchio e poi mi ha detto: “Beh, per questa mattina ne abbiamo abbastanza”. Abbiamo preso la strada e siamo ritornati a casa».

Le colline sono molto di più che un dato topografico per l’intellettuale occhialuto dal viso triste: per Pavese quei paesaggi dell’infanzia diventano «una fonte ricchissima di materiali per la sua officina letteraria, stampo degli archetipi ancestrali della storia umana», dice Vaccaneo. Sono un luogo atavico, che risveglia in lui «meraviglia » e « mistero», riportando alla sua mente una dimensione mitica, poi esplorata nei Dialoghi con Leucò. E proprio un aforisma tratto da quell’opera, Maria Pavese Sini decise di apporre sul ricordino funebre, come ricordato in una delle testimonianze inedite: «L’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia».

Lorenzo Germano

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