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La storia di Jean Michel, il sacrestano laureato fuggito dal Camerun

La storia di Jean Michel, il sacrestano laureato fuggito dal Camerun 1
Jean Michel Awong con il parroco don Paolo Marenco e il seminarista Emanuele Tibaldi.

MONTÀ Da qualche settimana la parrocchia montatese ha un nuovo sacrestano, con alle spalle una storia davvero particolare. Si chiama Jean Michel Awong ed è nato in Camerun il 20 agosto 1977. È arrivato in Italia su uno dei tanti barconi nell’agosto del 2015, lasciando nel suo Paese moglie, sette figli, un nipote e una laurea in economia. Dopo lo sbarco in Sicilia è stato portato a Torino, poi a Cuneo e infine a Prato Nevoso. Nel 2017 gli è stato concesso l’asilo politico ed è entrato nel progetto Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) che gli ha permesso di formarsi. Ha studiato informatica, è diventato bravo a usare il computer e ha trovato casa e lavoro. Durante il progetto è stato affiancato da alcuni tutor che lo hanno aiutato anche portandolo a Montà quando, a causa dell’arrivo della pandemia a inizio anno, è rimasto senza lavoro. Il contratto non gli è stato rinnovato e non gli era più possibile pagare l’affitto dell’appartamento in cui abitava.

In paese ha trovato una nuova casa e la promessa di un lavoro. Inizierà in una azienda locale dopo aver ripreso la patente (quella che aveva non è valida in Italia) e terminato un corso da saldatore. Ora che la sua vita, per l’ennesima volta, sembra essere tornata quasi normale Jean è pronto a mettersi al servizio della comunità: si dà da fare in parrocchia come sacrestano e in oratorio. Ma quando lo abbiamo incontrato, per parlare della sua esperienza, abbiamo scoperto che Jean ha molto di più da raccontare rispetto a questi ultimi cinque anni in Italia.

«Dal 1982 il Camerun è sotto la guida del presidente Paul Biya. Mio zio era un pezzo grosso del suo governo e quando iniziai ad andare all’università, nel 1994, mi offrirono dei soldi per passare informazioni dagli ambienti della cultura giovanile, dove già allora, nasceva e prosperava l’opposizione al partito unico del presidente. Nel giro di poco, però, mi convinsi della bontà delle loro idee rivoluzionarie tanto da abbracciare ufficialmente la loro causa. Fu così che iniziarono i miei guai», racconta Jean Michel, che fu processato e finì in carcere due volte. «Prima per più di un anno. Poi per altri tre. In prigione subii torture e violenze», prosegue, facendoci vedere le cicatrici su gambe, mani e viso.
Il sacrestano continua il racconto: «Tornato in libertà mi sono ritirato dalla politica, ho messo su famiglia e una piccola azienda. Nel 2009 ci sono ricascato e sono tornato in campo, ovviamente contro il potere costituito, fino alle elezioni del 2011. Come sempre ha vinto Biya che, subito dopo, ha voluto vendicarsi. Per evitare una nuova, dura, condanna al carcere sono dovuto scappare in Tunisia. Da un giorno all’altro, lasciando tutto».

Era il 2012 e Jean Michel è rimasto in Tunisia per tre anni. «Prima ho raccolto olive e poi sono riuscito ad aprire un ristorante tutto mio. Le cose stavano andando bene, ma lavoravo molto coi turisti che sono praticamente scomparsi quando, nel 2015, ci fu una lunga serie di attentati terroristici. Approfittando delle mie difficoltà economiche il proprietario delle mura di casa e del negozio tentò di appropriarsi di tutte le mie cose denunciandomi alla Polizia locale. Malvisto per la mia religione perché sono cattolico, e con un visto in scadenza avrei avuto poche possibilità di non finire in prigione. Dovevo cercare di arrivare in Europa».Jean Michel racconta come ha raggiunto l’Italia: «Mi sono affidato alle organizzazioni locali che pianificano le tratte via mare. Ho pagato la tariffa più alta, 750 euro, per avere diritto alle barche migliori. Significa solo che galleggiano un po’ meglio e sono un po’ più grandi dei gommoni che ti vengono assegnati per 300 euro. Mi hanno fatto entrare in Libia nascosto nel bagagliaio di un’auto. Il ragazzo che era con me è morto asfissiato. Io me la sono cavata per poco». Continua il rifugiato: «Per alcuni mesi siamo rimasti in attesa della barca. Sono stati durissimi; ci hanno derubati, picchiati e molestati spesso. Finalmente sono stato imbarcato su un peschereccio. Avrebbe dovuto tenere 150 persone ed eravamo 800, compresi donne e bambini. Io ero nella stiva e ho creduto che sarei morto, per mille motivi: il caldo (pensavo piovesse dentro la barca invece era il sudore di chi era sopra e a fianco a me), la mancanza d’ossigeno, d’acqua, la possibilità di naufragare. Sensazioni difficili da spiegare, terribili da vivere».

Conclude Jean Michel: «Infine, siamo stati abbandonati dagli scafisti appena arrivati in acque internazionali. Quella era la vera meta. Nessuno aveva intenzione di portarci a riva. Per fortuna, però, dopo diverse, terribili ore è arrivata la Marina italiana. Ci hanno salvati tutti e io sono stato portato in Sicilia».  Conclude Awong: «Oggi sono qui. La mente e il cuore vanno alla mia famiglia lontana, ma sono grato al Paese che mi ha salvato e per questo sono pronto ad aiutare quelli che ora stanno anche peggio di me. Grazie a diversi amici, a don Giorgio (che in passato mi ha ospitato a Bra) e a don Paolo lo posso fare concretamente».

Andrea Audisio

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