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Il ricordo di De Andrè alla fondazione Mirafiore

Francesca Serafini ci parla del cantautore genovese morto nel 1997

Il ricordo di De Andrè alla fondazione Mirafiore
Un momento dell'incontro in ricordo di De Andrè alla fondazione Mirafiore.

FONDAZIONE MIRAFIORE Il Laboratorio di Resistenza permanente della fondazione Mirafiore ha dedicato, sabato 19 febbraio, un pomeriggio a Fabrizio De Andrè. Oltre alla vedova Dori Ghezzi e alla cantante Maria Pierantoni detta Giua, era presente la scrittrice e sceneggiatrice Francesca Serafini. Nata a Roma nel 1971, è l’ideatrice della sceneggiatura di Fabrizio De Andrè – Principe Libero e autrice del libro Lui, io, noi, sempre sul cantautore genovese.

Serafini, quando si è avvicinata alla musica di Faber?

«Posso dire di essere cresciuta ascoltando i suoi brani. Nei primi anni Novanta, il mondo accademico considerava le canzoni come componimenti di serie b rispetto alla poesia. Mentre frequentavamo l’università, io e Giordano Meacci proponemmo al nostro docente Luca Serianni, linguista, uno studio sulla lingua dei cantautori, che fu accettato. Grazie al critico musicale Gianni Borgna anche Fabrizio lo lesse e, in seguito, volle incontrarci. Dopo la sua morte, nel 2018 io e Giordano abbiamo pensato a un film. Con l’occasione è nato anche un bel rapporto con Dori Ghezzi e un libro a sei mani, Lui, io, noi. Mantengo con Fabrizio un rapporto che conduco in solitaria, anche quando mi occupo di altro: il titolo del mio ultimo romanzo, Tre madri, si riferisce a una canzone contenuta nell’album La buona novella».

Parlando di parole, che tipo di lingua ritroviamo nei testi di De Andrè?

«Tra i cantautori, è forse quello con la massima consapevolezza linguistica, quasi assoluta. Non solo negli aspetti fonici, bensì nella ricerca della precisione lessicale, andando a riscoprire aggettivi e parole desuete. Alcune, proprio grazie alle sue interpretazioni, sono tornate di uso comune: penso ad esempio a “cangiante”. Oltre alla scelta dei vocaboli, c’è la capacità di creare metafore e similitudini particolari. Nella sua ricerca linguistica, De Andrè ha esplorato anche gli idiomi regionali. Creuza de mä è in un genovese arcaico. Ha scritto anche in sardo, lingua della sua “seconda patria”, e in napoletano».

Figlio di piemontesi, Fabrizio da bambino visse alcuni anni e trascorse le vacanze a Revignano d’Asti. C’è traccia di testi scritti da Fabrizio in piemontese?

«Pur avendo un forte legame con le sue origini, non mi risultano suoi componimenti in piemontese. Non so il motivo: la sua infanzia costituì un motore per la sua opera di ricerca, ma artisticamente dovette probabilmente prendere una distanza emotiva da ciò che visse. Nel 2018, quando venimmo a Nizza Monferrato, ci fu un incontro molto emozionante con la Nina protagonista della canzone Ho visto Nina volare».

Pur provenendo da una famiglia altoborghese, numerosi sono i riferimenti alle classi meno abbienti. C’è anche, nei testi, un’alternanza tra linguaggio colto e popolare?

«La sua grande capacità è stata il saper adattare la lingua a ogni contesto. Ha spaziato tra i vari registri anche per caratterizzare i personaggi dei brani in maniere diverse. Lo stesso vale per la parte musicale. In ogni disco, c’è sempre una ricerca ad hoc. Dopo gli chansonnier francesi volle immergersi nel mondo anglosassone e in seguito nella musica del Mediterraneo. Collaborò con De Gregori, Bugola, Pagani, Piovani, Reverberi e molti altri. Per ogni occasione, cercava le persone giuste per completare le opere».

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La scrittrice Francesca Serafini.

Ha un aneddoto che vorrebbe ricordare?

«Faber era un lettore molto curioso ed era solito appuntare delle glosse sui suoi libri. Con Giordano, ci aveva colpito l’accostamento di una sua canzone a versi di Catullo. Ci disse di aver mai prestato particolare attenzione all’autore perché lui, anarchico anche nelle letture, lo vedeva come un’imposizione del liceo. Gli regalammo allora un libro dell’autore latino e ci sforzammo di scrivergli una dedica in versi. Anni dopo, Dori lo ritrovò nella loro casa in Sardegna e ce lo ridonò: scoprimmo che aveva preso un sacco di annotazioni e appunti».

Davide Barile

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