LA RICERCA Nel ventunesimo secolo permangono discriminazioni silenti, processi di pregiudizio e categorizzazione sociale che rendono alcune frange di popolazione più deboli rispetto ad altre, più a rischio dal punto di vista dell’incolumità fisica, dell’integrazione e della salute psichica. Questa discrepanza si evidenzia nelle aree macroscopiche del vivere collettivo come il lavoro o l’accesso ai servizi, ma anche in sfumature meno comuni. In uno studio dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires) dal titolo 10 numeri sulla salute di genere in Piemonte, pubblicato nelle scorse settimane, viene evidenziato, per esempio, come per le donne risulti più difficile ricevere trattamenti tempestivi per quanto riguarda le angioplastiche effettuate entro due giorni dall’infarto. Questi interventi consentono di ridurre drasticamente la mortalità per infarto miocardico acuto, eppure nelle Asl piemontesi il gap di genere raggiunge i 18,3 punti percentuali: la probabilità per gli uomini di ottenere un’an- giografia entro due giorni è dell’87,4% e per le donne del 69,1%. Perché questa differenza paradossale? La ricerca Ires tenta di spiegare: «Possono concorrere motivazioni di diversa natura: da un lato le donne hanno una scarsa consapevolezza delle malattie cardiovascolari, dall’altro gli operatori sanitari stessi hanno una conoscenza solo parziale della sintomatologia dell’infarto a seconda del genere».
IL MEDICO DI BASE
Le donne, peraltro, anche se appaiono discriminate, mostrano invece una considerazione favorevole delle cure ricevute dal sistema pubblico: otto su dieci apprezzano il proprio medico di famiglia, mentre il giudizio della popolazione maschile si attesta su percentuali più contenute. Il gradimento è elevato anche in relazione ai servizi ospedalieri, ancora maggiore tra le femmine rispetto agli uomini (72,3% contro il 69,2%).
DIRETTRICI, 5 SU 18
Una disparità evidente si verifica però nell’accesso alle posizioni apicali del sistema: sebbene dei 486.500 dipendenti del servizio sanitario a livello nazionale il 68% sia rappresentato da donne, ai vertici gerarchici la percentuale si modifica in misura sfavorevole al gentil sesso.
Le direttrici delle Asl piemontesi sono 5 su 18 (dunque, i maschi sono 13), il 27,8% del totale, mentre le direttrici amministrative e sanitarie sono in entrambi i casi 10 su 18 (55,6%).
Nel complesso la ricerca Ires evidenzia come il punteggio relativo all’indice sull’uguaglianza di genere assegnato all’Italia nel 2021 sia pari a 63,8 su 100. «Tale valore colloca il nostro Paese al quattordicesimo posto tra i 27 Stati dell’Unione europea, con 4,2 punti sotto la media», spiegano all’Ires Piemonte. Eppure, scrivono le ricercatrici, «se si considerano le singole componenti dell’indice, il risultato migliore per l’Italia è tuttavia raggiunto proprio dal dominio relativo alla salute, con un valore pari a 88,4, che supera di poco la media Ue e pone il Paese all’undicesimo posto della classifica dopo gli Stati nordici».
L’ASSISTENZA
Nel prossimo futuro occorrerà invertire la portata negativa di questi dati: secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza la parità di genere costituisce una priorità strategica. Per esempio, la Missione 6 del progetto comunitario dedicata alla salute delinea un nuovo modello organizzativo della rete di assistenza sanitaria e sociosanitaria territoriale, che ha il fine di ridurre l’onere delle attività di cura (rivolte agli anziani, ma non solo) fornite in famiglia quasi sempre dalle donne. È uno dei tanti, importanti passi verso un’equità di soluzioni generalizzata, che andrà applicata nel concreto e non solo nelle pagine della programmazione politica.
TERZA ETÀ
L’assistenza degli anziani è un mondo in rapida evoluzione e nel futuro dovrà essere caratterizzata da interventi a domicilio da parte del servizio pubblico in misura sempre maggiore rispetto al passato. Lo sforzo è di territorializzare la medicina, slegandola il più possibile dalle strutture ospedaliere. Secondo la ricerca Ires pubblicata nelle scorse settimane nel 2020 in Piemonte solo il 2,5% degli anziani con più di 65 anni riceveva assistenza domiciliare (un valore in linea con quello medio nazionale del 2,8%). Eppure, il Pnrr prevede che, entro la metà del 2026, la percentuale salga al 10%. Spiegano le ricercatrici (Giovanna Perino, Stefania Bellelli e Gabriella Viberti): «Le cure domiciliari (da erogarsi 7 giorni su 7, 24 ore su 24) si configurano come un servizio in grado di gestire l’anziano a casa, come supporto del lavoro di cura dei familiari, spesso donne, che se ne occupano. Si tratta di interventi a diverso livello di intensità e complessità dell’assistenza, e consistono in trattamenti medici, infermieristici, riabilitativi, diagnostici, prestati da personale sanitario e sociosanitario qualificato per la cura alle persone non autosufficienti».
IL FUTURO
Le donne ricoprono infatti oggi funzioni di caregiving (erogazione delle cure) degli anziani in misura maggiore rispetto agli uomini, sia nelle vesti di operatori sanitari a domicilio che nel ruolo di familiari di supporto.
Alleggerire i pesi eccessivi e garantire i diritti di questo corpo lavorativo – sovente anche in difficoltà retributiva e in condizione di precarietà, o comunque di mancato riconoscimento – sarà un passaggio fondamentale per dare solidità agli equilibri del sistema.
Matteo Viberti