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Premio Pavese: nel mondo letterario con Michele Mari (INTERVISTA)

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SANTO STEFANO BELBO Due giornate dedicate alla letteratura, in dialogo con le più importanti espressioni produttive langarole. Ritorna sabato 5 e domenica 6 novembre nella chiesa dei Santi Giacomo e Cristoforo il Premio Pavese. La prima giornata inizierà alle 10 con il riconoscimento dedicato alle scuole: seguirà, alle 11.30, l’inaugurazione di Dialoghi, il nuovo spazio museale della fondazione Pavese con inediti donati dalle famiglie Molina e Vaudagna. La sala con i manoscritti acquisiti sarà dedicata alla memoria di Maurizio Cossa, pronipote dello scrittore, morto a febbraio.

Alle 15.30 ci sarà la cerimonia condotta da Chiara Buratti, in cui saranno presenti i vincitori Norman Gobetti (traduzione); Emilia Lodigiani per Iperborea (editoria); Gavino Ledda (poesia); Ludovica Maconi e Mirko Volpi (saggistica); Michele Mari (narrativa): uno per ogni campo in cui si distinse Pavese. La giornata di domenica sarà invece all’insegna dei libri: alle 10.30 la presentazione del romanzo L’edonista (Miraggi) scritto da Francesca Angeleri e Alessandra Contin; alle 11.30 il cantante astigiano Enrico Iviglia parlerà di Donne all’Opera. Dialoghi con un tenore (Team service).

Nel pomeriggio è in programma l’incontro benefico del locale Leo club intitolato “ConVinum: un calice tra le righe” con giovani scrittori e artisti locali (Agata Scarsi, Elena Branda, Jasmine Salah e Aurora Faletti) accompagnato da una degustazione.

L’INTERVISTA Lo scrittore meneghino Michele Mari, già vincitore nel 2008 del Premio Grinzane Cavour con Verderame e professore di letteratura all’Università di Milano, di Pavese dice: «È uno scrittore che ho letto e amato da ragazzo: anche quando mi è capitato di rileggerlo non ho provato delusioni. I Dialoghi con Leucò sono un libro bellissimo, sul quale ho dato anche diverse tesi di laurea, che regge meravigliosamente il tempo. Mi piace la dimensione elegiaca e meditabonda di Pavese, meno il tema resistenziale, che trovo un po’ meccanico e meno congeniale rispetto a Fenoglio».

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Michele Mari © BASSO CANNARSA

Un punto di contatto con i suoi romanzi è l’infanzia?

«È difficile rispondere, tutte le infanzie hanno qualcosa in comune: aspetti di trepidazione, incertezza, ansia, conflittualità con i coetanei e isolamento, soprattutto in quelle ferite o non pienamente risolte. Poi però ognuno ha il suo modo di riviverla, di raccontarla».

Le è stato di riferimento per la traduzione?

«Ho tradotto due libri pavesiani, uno è Uomini e topi di Steinbeck e l’altro, che deve uscire in primavera, è Benito Cereno di Melville. Quando traduco ho davanti a me soltanto l’inglese, poi quando ho finito, soprattutto nei punti controversi, vado a vedere gli altri. Pavese, come si sa, ha preso diverse cantonate, ma ha anche risolto splendidamente passi molto intricati: ha una lingua e una musica che ripagano. Occorre dire che quando ha tradotto Uomini e topi era in pieno fascismo. Siccome si parla della vita dei bovari e delle loro visite ai bordelli, tutto quello che riguarda prostitute, bar, bordelli è molto edulcorato perché anche solo la parola “puttana” non si poteva usare. E quindi lì non è colpa sua, ma della cultura dominante».

Che momento letterario stiamo vivendo ora in Italia?

«C’è molto conformismo, massificazione, standardizzazione, però anche tanto sperimentalismo: un paesaggio un po’ schizofrenico. Poi è sotto gli occhi di tutti che ci sia sempre più letteratura di genere, quindi gialli e fantasy. Questo è un po’ diseducativo, nel senso che porta il lettore a occuparsi solo di come va a finire la storia e fregarsene dello stile».

Pavese, Fenoglio, Calvino potrebbero esistere oggi?

«Sì, ma sempre meno. Un autore fluviale come Arbasino, tipico autore degli anni Sessanta e Settanta, oggi probabilmente rimarrebbe inedito, lo stesso Gadda già ebbe i suoi problemi allora, figuriamoci oggi. Il fatto che ci siano sempre più scrittori non è un bene: si potrebbe pensare che aumentando il numero degli scrittori statisticamente spunterà qualcuno di grandissimo valore, invece è il contrario. C’è una tale bulimia e sovrapproduzione per cui autori di valore restano schiacciati, non pubblicati o messi in un angolo della libreria».

Come spiega il successo commerciale di Cento poesie d’amore a Lady Hawke?

«Mi imbarazza perché l’ho scritto come una cosa minore, non mi sono sentito un poeta, ma ha venduto più di tutti i miei libri messi insieme. Da quello che mi dicono è entrato in un circuito mediatico legato a Internet per cui il pubblico, soprattutto giovane, ha incontrato alcuni temi che lo hanno colpito e si è impossessato di queste poesie come fossero una sorta di repertorio epistolare, postandole e citandole: è come se questo libro mi fosse stato espropriato. Io ormai lo sento come una cosa pop, come le icone di Andy Warhol. Un po’ come il famoso Urlo di Munch, che era uno angosciato e solitario, è stato dipinto per dar forma a un’ira, a un proprio incubo. L’autore sarebbe rimasto certo sbalordito a scoprire che quel quadro è diventato materia per poster, portachiavi e sottopiatti».

 Lorenzo Germano

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