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I braccianti continuano a essere sfruttati sulle colline targate Unesco

Se il dormitorio della Caritas di Alba ha riaperto con una nuova politica i veri flussi di lavoratori stranieri sono altrove

I braccianti continuano a essere sfruttati sulle colline targate Unesco
© Marcato

MIGRANTI Via Pola era la punta dell’iceberg, il volto più evidente di un problema ben più diffuso. Lo confermano le dinamiche delle ultime settimane, con la vendemmia in pieno svolgimento. Se il dormitorio della Caritas ha riaperto con una nuova politica, affidando al Comune e ai servizi sociali la presa in carico dei braccianti agricoli che arrivano in città, i veri flussi di lavoratori stranieri sono altrove.

Bisogna cercarli in collina, nelle cascine o negli alloggi in cui gli intermediari li ammassano a fine giornata, in condizioni che di dignitoso hanno poco. O, ancora, in soluzioni abitative precarie, difficilmente accettabili per chiunque, che i lavoratori pagano di tasca propria, per evitare di ritrovarsi in strada.

Ad Alba transitano soltanto, sempre negli stessi luoghi: la stazione dei treni, qualche giardino pubblico o i soliti piazzali dove li attendono i pulmini per le vigne, dove sono ben visibili.

Al parco del Tanaro e in altri luoghi della città, sono pochissimi a dormire per strada e quasi sempre si tratta di situazioni croniche, che non rientrano nel lavoro agricolo. Eppure, per quanto ancora più difficile da intercettare, il fenomeno è sempre lo stesso. Ce lo hanno raccontato alcuni giovani di origine africana che, la scorsa settimana, abbiamo conosciuto nei pressi della stazione di Alba, insieme ai volontari che continuano a monitorare la situazione. Il primo giovane è di nazionalità senegalese, ma parla italiano. È arrivato in città alla ricerca di lavoro e ha trovato un posto in una ditta che si occupa di confezionamento.

Grazie al primo ragazzo, ne abbiamo conosciuti altri due, che invece lavorano in campagna. Entrambi sono di origine subsahariana e dimostrano poco più di vent’anni. Da giorni vendemmiano, senza alcun tipo di contratto. «Vivo qui da qualche anno e ho sempre lavorato in agricoltura. Per fortuna, per nove o dieci mesi all’anno un posto si trova, ma è complicato: bisogna sempre passare da un “capo” a un altro. In tre anni, ho avuto un vero contratto solo per un paio di mesi, mentre per il resto del tempo ho lavorato sempre in nero», ci racconta il migrante, come fosse un dato di fatto, una prassi. L’amico, seduto su un muretto vicino a lui, è arrivato in città più di recente, dalla scorsa primavera.

La sua storia non è molto diversa: «Vivevo in Puglia, dove lavoravo alla raccolta degli ortaggi. Poi mi sono spostato, perché credevo ci fossero molte possibilità qui. Ora lavoro per un macedone, che ci viene a prendere con il pulmino alle sei: ci porta ogni giorno in vigne diverse, nelle vicinanze, dove raccogliamo l’uva».

Entrambi ci spiegano di lavorare per dieci ore, compreso il sabato. Ogni sera ricevono un messaggio sul cellulare dal “capo”, che conferma l’impegno del giorno seguente. «Domani ci sposteremo un po’ più lontano, a Canelli: conosco la zona, perché ci ho vissuto alcuni anni fa, prima di spostarmi ad Alba», precisa il primo ragazzo.

Sono loro a raccontare di come ciò che è visibile alla stazione di Alba, per esempio, corrisponda solo a una piccola fetta della realtà: «Non tutti i lavoratori partono da qui. Spesso, lungo la strada, il “capo” si ferma e fa salire altre persone. A volte lavoriamo insieme, altre ci dividiamo in due gruppi».

Dello stipendio in un primo momento preferiscono non parlare, perché hanno troppa paura di perdere il lavoro. «Ce lo ha detto lui, il “capo”: rischiamo di trovarci senza un posto», aggiunge uno dei due. Dopo qualche parola nella loro lingua, l’altro giovane prende coraggio: «Sei euro all’ora: qui è quasi sempre così. Lo so che è poco, ma ho bisogno di soldi per mantenere la mia famiglia, che si trova in Africa e che vive grazie a me».

Cerchiamo di capire di più sulla situazione abitativa: senza contratto, non hanno alcuna possibilità di avere un alloggio. È stato l’intermediario a trovare loro una stanza, in una sorta di residence. «Dormiamo in tre in una stanza molto piccola: non paghiamo poco, ma non sappiamo dove altro andare».

Sempre nella zona della stazione, incontriamo altri tre giovani con lo zaino in spalla, diretti verso i binari. «Lavoriamo in campagna, nella raccolta dell’uva. Siamo originari del Marocco», ci dice uno dei tre, l’unico a parlare italiano.

«Non abitiamo qui: arriviamo con il treno al mattino presto e ripartiamo la sera, tutti i giorni». Si guadagna bene? «Non saprei. Io ho il permesso di soggiorno scaduto e non ho un contratto, ma per chi mi dà lavoro non è un problema».  Scappano veloci sul treno, per poi sparire nella folla di turisti e pendolari.

Francesca Pinaffo

La migrazione è un fatto, non un’emergenza: l’appello firmato da Rifugiatinrete,

Che cosa accade a livello nazionale sul fronte dei migranti? Come interpretare i fatti e come muoversi per garantire aiuto e supporto a persone costrette a spezzare le proprie radici e ad abbandonare terre e famiglie per arrivare in Italia, un Paese per loro straniero, ma necessario alla vita?

Una risposta arriva dall’appello firmato da Rifugiatinrete, gruppo di cooperative sociali e di associazioni radicate sul territorio della provincia di Cuneo, e dalla rete Europasilo. Il documento dal titolo L’immigrazione è un fatto, non un’emergenza contiene riflessioni sullo stato dei richiedenti asilo sul territorio locale e nazionale.

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Numero di migranti sbarcati dal 1° gennaio 2023 al 6 ottobre 2023, comparati con gli stessi periodi degli anni 2021 e 2022

Spiegano i referenti della rete, nella quale compaiono anche realtà operative ad Alba e nei dintorni, come la cooperativa sociale Alice e la cooperativa sociale Orso: «In questi mesi le testate giornalistiche hanno più volte riportato notizie relative a un arrivo massiccio di richiedenti asilo in provincia di Cuneo (e in generale in Italia) e al conseguente affanno della Prefettura nella ricerca di nuovi posti di ricevimento; si è molto parlato delle dichiarazioni di Amministrazioni comunali più o meno aperte verso i migranti o della preoccupazione dei cittadini circa l’apertura di nuovi centri di accoglienza straordinaria e del loro impatto sulle comunità locali. Siamo di fronte a una nuova emergenza? Il nostro territorio e quello nazionale non sono pronti per ospitare persone che arrivano da scenari di guerra, disastri ambientali, eccetera?».

La risposta più chiara è nei numeri: nei primi mesi del 2023 gli arrivi sono aumentati rispetto ai due anni precedenti, ma non hanno toccato i picchi raggiunti nel periodo 2014-2017. In tutto, i numeri del Ministero dell’interno riferiscono di 136mila persone circa, che potrebbero essere utilmente ripartite, in Italia e in Europa, in quegli ambiti occupazionali nei quali manca il personale, dopo un’adeguata formazione e istruzione. Perché, invece di gridare all’invasione che non c’è, non si riesce a mobilitarsi, visto che sono gli stessi imprenditori a chiederlo? La risposta sta nelle divisioni della politica?

Proseguono i referenti della rete: «La cronica mancanza di programmazione continua a rendere emergenziale un fenomeno strutturale e non consente la costruzione di un sistema di integrazione stabile sui nostri territori, con conseguenze che si faranno sentire nel medio periodo. Essa obbliga inoltre le Prefetture a farsi carico dei migranti attraverso accoglienze d’emergenza nei Comuni che – per le logiche di appalto e di costi – finiscono per essere perlopiù centri collettivi dotati di personale non qualificato e caratterizzati da un’impostazione assistenziale piuttosto che d’integrazione, dove l’accoglienza viene di fatto delegata a enti privati».

Chi ci salverà dal pifferaio magico? 1

Inoltre, la legge 50 del 2023, l’ex decreto Cutro voluto dal Governo di Giorgia Meloni, impedisce l’ingresso dei richiedenti asilo nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai): l’inserimento del migrante diventa esclusiva gestione del Ministero dell’interno, salvo le situazioni di vulnerabilità. L’approccio di tipo emergenziale finisce insomma per generare processi di colpevolizzazione delle persone, aumento della paura nei confronti dello straniero, chiusura delle comunità e indebolimento del diritto di asilo.

Conclude la rete associativa rilevando alcuni punti importanti di lavoro, tra cui quello di evitare in modo assoluto i morti in mare, valorizzando invece il modello Sai, che genera inclusione e rispetto dei diritti. Per esempio, è necessario che l’accoglienza non sia una scelta facoltativa dei Comuni, ma venga incardinata nel sistema di welfare, in modo che i migranti possano essere ridistribuiti secondo «quote regionali di posti ordinari ripartiti tra ogni regione in proporzione alla popolazione residente», affinché ogni territorio partecipi responsabilmente all’accoglienza senza squilibri locali o nazionali. Infine, occorre favorire la presa in carico dei minori stranieri non accompagnati e smettere di fomentare la guerra tra poveri, costruendo interventi per favorire l’aumento dei redditi per tutti, l’accesso alla casa, alla salute, alla scuola e a un lavoro dignitoso, assicurando pari opportunità a ognuno.

 Maria Delfino

Bastardi (Cisl): si può rispondere alla crisi di manodopera

L’incognita delle problematiche sanitarie e sociali sulla raccolta della frutta nel SaluzzeseNella lotta all’illegalità e allo sfruttamento lavorativo nel comparto vitivinicolo di Langhe e Roero, c’è un soggetto che può svolgere un ruolo importante, anche nel contatto con i lavoratori: sono i sindacati di categoria. La questione è nota alle segreterie provinciali, che sono molto attive nel Saluzzese, dove da anni è stato attuato un protocollo d’intesa per l’accoglienza e il contrasto a pratiche irregolari, che ha portato a un miglioramento nella gestione dei flussi dei migranti.

Piertomaso Bergesio è il segretario generale della Cgil di Cuneo: «Le dinamiche radicate nell’Albese sono un paradosso: abbiamo un sistema vitivinicolo con un’elevata redditività, in un’area patrimonio Unesco. E un sistema permeato d’illegalità che ha assorbito la gestione dei lavoratori. Gli intermediari forniscono i braccianti alle aziende e trovano per loro situazioni abitative per nulla dignitose, se non li lasciano in strada. Ma gli imprenditori agricoli continuano a ricorrere a questo sistema, che assume i tratti di un’interposizione illecita di manodopera».

Che cosa si può fare? Bergesio prosegue: «Esistono, in agricoltura, contratti specifici che permettono di gestire la manodopera in base alle stagioni e al bisogno, con alternative legali da percorrere. Non dimentichiamoci che parliamo di un settore con una fiscalità di vantaggio. I braccianti vanno intesi come lavoratori. Sono stranieri, ma parte di questa comunità, perché generano ricchezza con il loro lavoro. Il primo passo dovrebbe essere una regolamentazione chiara dei flussi, per quanto riguarda l’incontro tra domanda e offerta: bisognerebbe ridare valore ai centri per l’impiego, per poi passare a una rete di soluzioni abitative mirate e a un sistema di trasporto per i braccianti».

Parliamo anche con Antonio Bastardi, segretario generale della Fai Cisl provinciale: «Per quanto sia importante non generalizzare, si tratta di situazioni lavorative che potrebbero considerarsi al livello della schiavitù. La scorsa settimana, per esempio, abbiamo incontrato alcuni giovani che vivono in alloggi fatiscenti in un Comune in Langa: nessuno aveva la minima conoscenza dei propri diritti. Ed è un concetto chiave, perché questi meccanismi fanno leva sulla fragilità. Il primo passo dev’essere il contatto con i lavoratori, con la formazione. La casa è fondamentale, come ha dimostrato l’esempio di Saluzzo, dove ci sono soluzioni temporanee per i migranti con contratto, che contribuiscono al pagamento. In questo modo, si esce dall’assistenzialismo e si favorisce la legalità. Siamo di fronte a una crisi generale della manodopera, non solo in agricoltura: abbiamo la possibilità di mettere in piedi un sistema che potrebbe giovare a tutti i comparti dell’Albese, non solo con una logica stagionale. Ma serve una rete condivisa, a partire dalle aziende e dalle istituzioni».  

Francesca Pinaffo

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