8 marzo. Tre donne su quattro si dedicano ogni giorno al lavoro domestico

«Una mutazione in senso paritario tra uomini e donne impiega tempo a realizzarsi: scardinare una cultura è difficile». ELEONORA DE STEFANIS

8 marzo ad Alba: incontri per aiutare a riflettere e pure divertire 1

8 marzo  Abitiamo un’epoca lavoro-centrica, in cui la professione svolta occupa quasi l’interezza del tempo e colonizza i pensieri. Madri e padri vivono crescenti livelli di stress, perché devono conciliare la produttività con la genitorialità, la carriera con la cura di sé stessi e la vita sociale. Non essendo possibile mantenere un equilibrio funzionale, questo quadro induce talvolta le persone a trascurare amici e passioni per dedicarsi a un cronico pragmatismo.

Esiste inoltre un’importante disparità di genere che vede le donne in costante svantaggio rispetto alla controparte maschile. Secondo un’analisi dell’Ufficio studi della fondazione Cassa di risparmio di Cuneo in collaborazione con il Laboratorio secondo welfare – dal titolo Le politiche di conciliazione tra famiglia, lavoro e servizi per l’infanzia, presentata a febbraio –, in Italia poco più di una donna su due (53,5 per cento nel Paese, ma 63,3 nella Granda) lavora e il tasso di occupazione femminile, differentemente da quello maschile, cala all’aumentare del numero di figli. Inoltre, tre donne su quattro (76 per cento) in coppie con figli si dedicano anche al lavoro domestico contro poco più di uno su tre uomini (36 per cento). Questi numeri testimoniano il sussistere di un doppio problema: da un lato la difficoltà di armonizzare il lavoro con le esigenze della vita, dall’altra l’ancora forte penalizzazione delle donne rispetto agli uomini.

Spiegano le ricercatrici: «La conciliazione dei tempi ha ripercussioni di vario genere sulla possibilità di accrescere il benessere delle persone, raggiungere la parità di genere e, più in generale, sulla crescita del Paese. Misure e strumenti di conciliazione possono essere i servizi (per l’infanzia, per le persone non autosufficienti, di prescuola/postscuola, di disbrigo pratiche), il tempo (flessibilità, smart working, congedi) e denaro (benefit di vario genere, bonus asili nido, assegno unico e universale)».

Non bisogna inoltre scordare l’attività di comunicazione, volta alla promozione dell’utilizzo sia dei benefit che di una maggiore condivisione dei carichi di cura tra uomini e donne. Le iniziative di sensibilizzazione favoriscono il cambiamento culturale ovvero l’instaurarsi di un pensiero collettivo che non relega al femminile la funzione di accudimento dei figli o di cura domestica. La ricerca della Crc racconta pure che, sul fronte del pensiero collettivo, iniziano a vedersi segnali di cambiamento. Le analisi effettuate dall’Inps nel 2023 sull’utilizzo dei congedi di paternità fanno ben sperare, visto che il livello tra il 2013 e il 2022 è aumentato di quasi 45 punti percentuali, passando dal 19 al 64 per cento.

Ciononostante, dicono ancora le ricercatrici, «è impossibile ignorare il fatto che il tasso di utilizzo dei congedi di paternità sia ancora limitato e diminuisca all’aumentare del numero dei figli. Il dato non sorprende se letto alla luce dei trend occupazionali, i quali mostrano gli uomini più impegnati sul fronte lavorativo rispetto alle donne».

L’analisi registra inoltre l’andamento positivo del numero di uomini che fruiscono del congedo parentale (non va confuso con il congedo di maternità/paternità: è un periodo di astensione facoltativo dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita, ndr); la percentuale si assestava intorno al 18,7 per cento nel 2017 e ha superato il 21 nel 2021.

Infine, emerge come al 33 per cento delle famiglie non sia garantito un posto per il figlio in un servizio per la prima infanzia, un fatto che ostacola notevolmente la conciliazione dei tempi vita-lavoro dei genitori. La strada è dunque ancora lunga e molti sono i passi da compiere verso una reale parità di genere, di opportunità e di libertà di movimento e scelta.  

r.a.

«Mi sento sola e schiacciata dal lavoro»: la storia di una madre spiega le forti difficoltà a bilanciare la cura della famiglia con la professione

«Mi sento frustrata per tre ordini di ragioni: la mole di lavoro, la solitudine e l’impossibilità di sentirmi capita». Lo dice Carola, una neomamma che vive ad Alba. Il suo bambino ha sette mesi, mentre suo marito lavora come libero professionista nel campo agricolo.

La donna racconta come la sua vita dopo la nascita del figlio sia cambiata in modo radicale: «Dopo i primi mesi di felicità, grazie anche all’aiuto di mio marito che ha usufruito di una parte del congedo, è iniziata la “grande fatica”. Sono tornata al lavoro: sono impegnata per sei ore al giorno in un ufficio con una mansione da contabile; il mio piccolo rimane coi nonni. Poi, torno a casa e devo lavare, pulire, mettere a posto, occuparmi di mio figlio. Mio marito lavora otto ore al giorno, nove considerando la pausa pranzo e dieci tenendo conto degli spostamenti verso la sede aziendale. Quando torna a casa è quasi ora che il bambino vada a dormire. La mia vita è cambiata: non ho più tempo per uscire con le amiche, senza scordare la preoccupazione economica, perché i nostri guadagni sono modesti e il costo della spesa sempre più elevato. Vorremmo inserire il bambino all’asilo nido, ma la retta è di 600 euro al mese. Mi sembra davvero troppo! È difficile fare la mamma se devi sempre rimanere in allerta, non puoi riposarti, non puoi prenderti cura di te e delle persone a cui tieni. È complesso essere genitore oggi; l’aspetto più triste è che non puoi dirlo troppo forte, non puoi confidarlo agli amici, altrimenti ti giudicano e ti etichettano come una “cattiva madre”, che pensa solo a sé stessa. Di fatto ho dovuto rinunciare alla mia carriera, riducendo l’orario di lavoro. Sento che anche i miei capi mi guardano in modo molto differente».

La storia di Carola è spiegata da numerose variabili, tra cui il sussistere di quello che la ricerca pubblicata dal Centro studi della fondazione Crc a fine febbraio chiama il female bias in reconciliation ovvero la percezione da parte dei dirigenti delle organizzazioni e dei colleghi che la necessità di conciliazione e il conflitto famiglia-lavoro siano questioni che riguardano specificatamente le donne e non tanto gli uomini. Una tendenza che, da un lato, contribuisce alla mancata valorizzazione della paternità e, dall’altro, genera una «penalizzazione della maternità», un fenomeno importante, per cui la retribuzione delle donne diminuisce per i compiti di cura dopo aver avuto figli.

Un’altra forma di grave difficoltà per le donne è confermata anche dall’ultima relazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro sulle convalide delle dimissioni e sulle risoluzioni consensuali da parte di lavoratrici madri e lavoratori padri. Nel corso del 2021, infatti, delle 52.436 convalide totali, il 71,8 per cento ha riguardato donne, contro il 28,2 degli uomini. A questo dato, che già evidenzia un forte squilibrio di genere, se ne aggiungono altri, relativi alle motivazioni legate alle dimissioni: mentre per il 48,3 per cento delle donne la difficoltà a conciliare lavoro e famiglia rappresenta la motivazione principale che porta a lasciare l’impiego, ciò accade solo nel 3 per cento dei casi per gli uomini. Per i padri, infatti, le dimissioni sono spesso dovute piuttosto al passaggio a un’altra azienda.  

r.a.

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