Ultime notizie

Carne coltivata, forse un novel food del futuro (FOTO e VIDEO)

C’è chi non reputa corretto chiamarla carne. Chi, invece, pensa che possa risolvere problematiche ambientali e etiche

Carne coltivata, forse un novel food del futuro (FOTO e VIDEO)
Stefano Alessandria e Nike Schiavo foto Marcato

GAZZETTA DEL GUSTO È la carne coltivata il focus dell’incontro organizzato dall’associazione FuturAlba sabato 23 Marzo, nella sala congressi di Banca d’Alba. C’è chi non reputa corretto chiamarla carne. Chi, invece, pensa che possa essere una soluzione per risolvere problematiche ambientali e etiche.

Prima di entrare nel vivo del dibattito, Bruna Anzà, vice-presidente di Agricoltura Cellulare Italia aps e dottoranda in ingegneria chimica al Politecnico di Torino, ha descritto il processo produttivo, evidenziando le potenzialità e le attuali limitazioni della carne da colture cellulari. Il dibattito ha visto schierarsi Nike Schiavo, ricercatrice dell’Università degli studi di Trento e Fabiano Porcu, direttore della Federazione Provinciale Coldiretti di Cuneo.

Secondo Porcu, l’allevamento in Italia rappresenta un punto di forza e un’eccellenza legata al territorio, uno strumento per prendersi cura delle nostre colline ma, al tempo stesso, ci permette di produrre carne di ottima qualità. Il rischio, quindi, è quello di andare a snaturare un sistema che funziona da secoli, sostituendolo con una tecnologia di cui non si conoscono le conseguenze.

A favore della carne coltivata, invece, ribatte la scienziata Nike Schiavo, che si affida ai dati derivanti da pubblicazioni scientifiche. Dal punto di vista ambientale, secondo gli studi di previsione effettuati, sembrerebbe che la produzione in laboratorio sia nettamente meno impattante dell’allevamento tradizionale. Evidenzia, inoltre, come gran parte della carne che viene attualmente consumata in Italia viene importata e che quindi la produzione italiana non sia che un piccolo granello nella scena produttiva mondiale.

Una via per il futuro dell’alimentazione?

C’è chi pensa che la carne coltivata sia un oltraggio. Che porterà alla fine l’allevamento tradizionale. Che sarà la rovina dei piccoli allevatori. Ma la realtà è forse diversa.

L’obiettivo non è eliminare la carne proveniente da allevamenti estensivi, condotti da piccoli allevatori in armonia con l’ambiente circostante, bensì sostituire gradualmente tutti quei prodotti che derivano dal sistema intensivo, dannoso a livello ambientale e sociale. Di che cosa si tratta, veramente? Che cos’è la carne coltivata? E come viene prodotta?

«Innanzitutto bisogna definire il concetto di carne coltivata. Spesso viene erroneamente chiamata sintetica. Ma la carne prodotta in laboratorio non è altro che tessuto cellulare sviluppato da colture di cellule animali». Lo racconta Sebastiano Alberganti, ricercatore di Mosa meat, azienda di tecnologia alimentare con sede in Olanda.

Prosegue: «Il procedimento per la produzione in realtà è abbastanza semplice: si prelevano delle cellule staminali dall’animale, che sono in grado di specializzarsi per diventare muscoli e grasso. Queste vengono isolate e lasciate proliferare in un ambiente controllato. Quando poi si raggiunge una quantità sufficiente, inizia il processo di maturazione e specializzazione. Le cellule diventano così tessuto muscolare o adipociti, cellule del grasso. Queste due frazioni vengono poi unite e mescolate per riprodurre un macinato di carne». Nella produzione di quella coltivata, nulla può essere lasciato al caso: la crescita viene verificata attentamente. C’è chi, però, mette alla luce le criticità del processo. Le cellule staminali, per essere prelevate, potrebbero portare sofferenza o anche la morte dell’animale. Questo procedimento, quindi, non andrebbe a risolvere un grosso problema legato all’allevamento: l’uccisione.

«Negli anni abbiamo perfezionato la tecnica per prelevare le cellule staminali. Inizialmente il prelievo richiedeva la morte. Ora non è più così: si fa una piccola incisione nel gluteo del bovino e si ricava un pezzettino di tessuto, grosso più o meno come un grano di pepe. Da questo, è possibile produrre una decina di migliaia di hamburger. Durante tutto il processo l’animale viene anestetizzato e non sente alcun dolore. Con i sistemi di allevamento attuale, da un vitello macellato si ottengono circa 800 hamburger (se contiamo anche i pezzi che normalmente non vengono usati per la macinazione). Con questo piccolo granello di pepe, invece, siamo in grado di ottenere la carne che si otterrebbe con circa cento vitelli», prosegue Alberganti.

Ma, tornando alle obiezioni degli scettici è bene domandarsi: la carne coltivata potrebbe sostituire le razze autoctone? Assolutamente no. Allevamenti di questo genere non rappresentano i volumi che è importante combattere per attuare un cambiamento dal punto di vista ambientale. Non è la chianina. Non è la razza piemontese. Non è nessuna razza autoctona prodotta a livello locale a essere maggiormente responsabile dei problemi ambientali legati alla produzione carnea.

Sia chiaro, le emissioni ci sono anche in questo caso, ma sono meno rilevanti in quanto i capi prodotti sono nettamente inferiori. Il 99,3 per cento dei maiali che troviamo sotto forma di bistecche e salsicce nei supermercati provengono da allevamenti intensivi. Quasi la stessa percentuale la troviamo nei polli.

Difendere i piccoli produttori è giusto e lecito, ma dobbiamo pensare che si tratta di una parte piccolissima della produzione, perché la quasi totalità della carne che consumiamo proviene invece dagli allevamenti intensivi.

È nato nel 2013 l’hamburger  di Mark Post

cibo sintetico
© Coldiretti Giovani impresa

Grazie al team di ricerca guidato da Mark Post, dell’Università di Maastricht, fu creato il primo hamburger di manzo coltivato già nell’agosto del 2013.

Da quel momento, centri di ricerca e università hanno investito per migliorare il sistema produttivo e gli aspetti nutrizionali e sensoriali del prodotto.

Ma quali sono i principali vantaggi della carne coltivata? In primis, la salvaguardia del benessere animale. La produzione in laboratorio, come già accennato, può aiutare a immettere grossi quantitativi di carne senza la necessità di allevare e macellare un gran numero di animali. Secondo, la sicurezza dell’alimento: crescendo in un ambiente controllato, non si dovrà andare incontro al rischio di contaminazione batterica proveniente, in genere, dall’intestino del bestiame, specialmente se allevato in condizioni di sovraffollamento.

Il mancato utilizzo degli antibiotici durante le fasi della crescita, inoltre, azzererebbe la probabilità di ritrovare residui nel prodotto finale. Infine, tutto questo porterebbe a una produzione più sostenibile di proteine, fondamentale per la salvaguardia del nostro pianeta negli anni a venire. Di contro, però, i processi di produzione richiedono costi molto elevati rispetto all’alternativa attuale. Secondo le recenti analisi, la carne di manzo coltivata in laboratorio potrebbe essere otto volte più costosa.

Questo, però, potrà risolversi nei prossimi anni grazie al miglioramento e all’ottimizzazione dei processi tecnologici e di produzione. In più, è fondamentale che le autorità competenti facciano uno studio attento degli effetti a lungo termine riguardo al consumo di questo prodotto, oltre a una corretta analisi delle sue proprietà nutrizionali.  

Chiara Nervo

I fautori spiegano che l’impatto ambientale è inferiore rispetto all’allevamento

Il corteo degli agricoltori sui trattori nelle vie della città (FOTOGALLERY) 3

Ormai non è più un segreto per nessuno: la produzione intensiva di carne è responsabile di una buona parte dell’inquinamento ambientale. Secondo la Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura), le emissioni globali per l’allevamento del bestiame potrebbero raggiungere 9,1 miliardi di tonnellate di Co2 entro il 2050.

I maggiori responsabili sono i bovini, con la produzione di carne e latticini, seguiti da suini, polli, bufali e, infine, dai piccoli ruminanti. Produrre carne con l’attuale sistema intensivo – qui non si parla di piccoli allevamenti – significa infatti utilizzare una grande quantità di acqua e di mangimi, deforestare aree per renderle adatte a crescere animali o per produrre il loro nutrimento e rilasciare nell’atmosfera grosse quantità di Co2.

La carne coltivata, al contrario, sembrerebbe avere un impatto ambientale minore, ma gli studi sono ancora in corso. Dalle analisi effettuate negli ultimi anni sulle emissioni e sull’utilizzo di energia per la produzione di carne in laboratorio è emerso che, in questo momento, si riuscirebbero a ridurre del 92 per cento le emissioni globali, tra gas serra, utilizzo di territori e risorse. Il motivo è semplice: si produce in modo più efficiente.

Certamente, i laboratori richiedono una grande quantità di energia, ma, se ci si orienta sulle energie rinnovabili, l’impatto pare possa diminuire davvero drasticamente.  c.n.

Per adesso si mangia solo a Singapore

Il consumo di carne varia in base a cultura e tradizioni: negli ultimi anni sono nate molte alternative vegetali, proteine microbiche che riproducono l’aspetto, il gusto e la consistenza del prodotto proveniente da allevamenti tradizionali.

In molti Paesi la carne coltivata è diventata oggetto di dibattito politico e di regolamentazione. Ma, a che punto siamo a livello legislativo? Rischiamo davvero di trovarci nel piatto carne coltivata da un giorno all’altro?

Partiamo dalla terminologia. Erroneamente, alcuni definiscono il prodotto coltivato in laboratorio come carne sintetica. Con il termine sintetico, a livello filologico, descriviamo qualcosa creato grazie alla sostituzione di due molecole. Basta pensare alla seta, realizzata dalla sintesi di materie petrolifere, con lo scopo di imitare il più possibile la matrice originale naturale.

Quando si parla di carne coltivata, invece, si parte da cellule staminali, prelevate da un animale vivo tramite biopsia, fatte crescere in bioreattori e fatte moltiplicare fino a formare cellule utili a ricreare burger e salsicce. Si produce quindi un alimento che biologicamente è carne, ma che non deriva dalla macellazione.

Molteplici sono le obiezioni a livello politico per questo novel food. In effetti, la strada per la sua approvazione, almeno in Europa, è ancora lunga. L’unico Paese del mondo in cui attualmente è permessa la commercializzazione e la vendita di carne coltivata è Singapore, dove viene venduta in un ristorante sotto forma di crocchette, con lo scopo di imitare le crocchette di pollo. Israele e Stati Uniti, nel frattempo, stanno investendo molto a livello tecnologico per la ricerca e la sperimentazione.

In Europa, invece, la commercializzazione è ancora lontana. Sono nate negli ultimi anni nuove aziende che lavorano per il miglioramento tecnologico e le università stanno investendo. Ma, attualmente, non ci sono richieste di approvazione all’Unione europea da singoli produttori di carne coltivata. Per legge, infatti, la carne coltivata è definita un novel food ovvero «un prodotto privo di storia di consumo significativo al 15 maggio 1997 in Unione europea». Prima dell’immissione in commercio, quindi, è necessario valutarne la sicurezza, attenendosi a un iter di autorizzazione scientifica. Solo dopo, si procede con l’autorizzazione da parte della Commissione europea. Senza un’approvazione che ne comprovi la sicurezza, quindi, non è possibile procedere.

In questo momento è fondamentale non creare contrapposizioni. Serve un dibattito informato: bisogna sedersi attorno a un tavolo e discutere quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi. Per noi e per il pianeta. 

Chiara Nervo

Il futuro è già servito: insetti presto in tavola 4

Banner Gazzetta d'Alba