«Il futuro è più tardi di martedì»: lo dico ai miei piccoli di Cape Coast

«Il futuro è più tardi di martedì»:  lo dico ai miei piccoli di Cape Coast 3
Foto Elisa Pira

IL REPORTAGE Il percorso di volontariato in Africa di Elisa Pira ci porta questa volta in Ghana. «Il trasporto pubblico qui è affidato a vecchi van sgangherati, i cosiddetti tro tro. La partenza non rispetta un orario preciso: si può partire solo quando l’ultimo posto a sedere si è riempito, un fatto che a volte comporta un’attesa di ore».

Arrivare in Ghana non è stato semplice fin dall’inizio, ma è quella la destinazione che ho scelto per la seconda parte del mio viaggio – la prima, in Togo, è stata raccontata due settimane addietro da Gazzetta d’Alba, ndr – e non sono una persona che si scoraggia facilmente.

Trascorrerò un mese in Ghana per un progetto di volontariato in una scuola e qualche parentesi di viaggio alla scoperta di alcune aree. La decisione di arrivarci via terra, con i mezzi pubblici, partendo dal Togo dove ho trascorso quasi un mese, ha comportato qualche difficoltà sia per l’ottenimento del visto che per l’attraversamento della frontiera (la burocrazia non è una nostra prerogativa).

Con un primo taxi arrivo al confine. Poi mi sposto a piedi tra i vari uffici, prima quelli togolesi, dove si parla francese, per i documenti di uscita (dal Togo) e, poi lato Ghana, passando all’inglese, per il più complicato ingresso nel nuovo Paese. Infine, cerco il bus che mi porterà ad Accra, la capitale, districandomi tra tutti coloro che mi seguono per vendermi ogni tipo di servizio e mercanzia, dal facchinaggio al taxi, dalla scheda telefonica alle banane. Pazienza e fermezza sono le uniche cose delle quali non si può fare a meno.

Polvere e caldo mi accompagnano per tutto il tragitto, senza tregua. In Ghana il trasporto pubblico è affidato a vecchi van sgangherati, i cosiddetti tro tro. La partenza non rispetta un orario preciso: si parte quando anche l’ultimo posto a sedere si è riempito, il che a volte comporta un’attesa di ore.

Il mio tragitto dura cinque o sei ore, a seconda del traffico e del numero di soste, dovute perlopiù a controlli di documenti e bagagli. A ogni apertura del portellone si infilano nel mezzo venditori di bibite, frittelle, spiedini e platano essiccato.

«Il futuro è più tardi di martedì»: lo dico ai miei piccoli di Cape Coast
Foto di Elisa Pira

All’arrivo nella capitale, dopo un’altra lunga attesa, riesco a salire sul tro tro che in circa tre ore mi condurrà a Cape Coast, la mia meta finale. Altra sosta affinché il van si riempia (o meglio si stipi) e poi finalmente partiamo. Il caldo è soffocante. Arrivo in città sul fare della sera. L’ennesimo taxi mi porta alla casa che mi ospiterà nelle settimane a venire, in una zona periferica della città. Philomina mi aspetta sull’uscio per darmi il benvenuto.

L’afa sarà il mio peggior nemico, dentro e fuori casa, per tutto il mese che trascorrerò qui. Le temperature sono da record, tanto che anche i locali parlano di ondata eccezionale. In casa, l’unico sollievo è dato dal ventilatore, ma i blackout sono pressoché quotidiani e durano ore, rendendo le notti insonni. È la stagione secca, l’acqua manca spesso e la pressione non è quasi mai sufficiente perché sgorghi dai rubinetti, quindi ci serviamo delle taniche, che riempiamo nelle poche ore di abbondanza.

La mia quotidianità ha inizio sul far del giorno, verso le 6-6.30, a ritmo lento. La sveglia, la “doccia” con l’ausilio del secchio, la colazione. Poi, in marcia verso la scuola, il primo tratto di strada a piedi e poi in taxi condiviso oppure in auto con Philomina, che insegna a pochi chilometri da casa. Si prosegue con un tuk tuk fino al mercato e da lì in minibus per il villaggio vicino. Ancora un quarto d’ora a piedi per risalire la collina ed eccomi al mio nuovo luogo di lavoro.

«Il futuro è più tardi di martedì»: lo dico ai miei piccoli di Cape Coast 1
Cape Coast, Ghana. Foto di Elisa Pira

Nonostante la scuola sia a pochi chilometri, il tragitto coi mezzi pubblici richiede un paio d’ore, a volte di più, in base al traffico e alla partenza dei mezzi. Alle 9 il caldo e l’umidità sono già insopportabili. Mi assegnano un gruppetto di bambini dai sette ai nove anni, che di inglese hanno già una conoscenza di base, mentre i piccoli parlano solo la lingua locale, il fanti. La scuola, aperta anche ai piccoli del villaggio, è nata per i bambini e i ragazzi dell’orfanotrofio, che ha sede nel medesimo edificio, dove vivono in quaranta, da 1 a 18 anni.

Tutti fanno del loro meglio, ma le condizioni non sono buone. La struttura, un ex hotel, è fatiscente. Le classi sono cinque: asilo nido, prescuola, classe elementare (quella temporaneamente affidata a me) e due classi più avanzate per gli adolescenti. I bambini e i ragazzi sono orfani o più frequentemente provenienti da famiglie disagiate, che non possono o non vogliono occuparsene. Le famiglie sono incredibilmente numerose e la gente si dedica principalmente a piccoli e poco redditizi commerci.

«Il futuro è più tardi di martedì»:  lo dico ai miei piccoli di Cape Coast 2In questi pochi metri di edificio, attorno al cortile, si svolge la vita di questi bambini, a partire dalla colazione, a base di porridge, poi le ore di lezione, il pranzo (riso) e la cena. I pasti sono un lavoro di squadra: i grandi imboccano i piccoli, aiutando le maestre. Io mi occupo delle lezioni al mattino.

L’inizio non è semplice, siamo sotto un portico, il caldo mi toglie le energie fin dalle prime ore. I bambini mi studiano, hanno sguardi diffidenti e fare indagatorio. Eppure bastano pochi giorni per rompere il ghiaccio, per vederli fare a gara per portarmi la sedia o cancellare la lavagna.

Decido di prolungare il periodo qui, aggiungendo parte dei giorni che avevo inizialmente pensato di destinare al viaggio. È faticoso, ma ne vale la pena. Ho un programma preciso da seguire, materie che vanno dalla matematica all’inglese, dal computer (che non abbiamo, quindi ogni volta dobbiamo disegnarlo) alle religioni (che sono tre: cristiana, musulmana e vuduista), però mi dedico principalmente a ciò che mi riesce meglio e che più entusiasma i miei alunni: l’apprendimento attraverso l’arte e la creatività.

Quando mi chiedono degli occhiali da sole come i miei, li realizziamo con cartoncino e colori. E poi impariamo i nomi degli animali disegnandoli, la simmetria realizzando maschere. All’arte non sono abituati, qualcuno teme di non essere all’altezza. Selina è bravissima, ma ogni volta che si ritrova con una matita in mano viene da me con lo sguardo desolato e mi dice «I can’t», non sono capace.

Le prime volte la devo incalzare: provaci! Lo fa, si accorge di essere brava e dopo le prime titubanze inizia a fare lavoretti anche per i fratelli, pure loro all’orfanotrofio. Ebenezer è un talento naturale e si entusiasma ogni volta che vede un foglio da disegno da riempire. E alla fine, quando è il momento di salutarsi, il mio ultimo venerdì a scuola, e tutti mi chiedono di tornare, mentre Jake mi scorre con l’indice le vene azzurre dei polsi, che sembra volersele stampare nella memoria, è Ebe (come lo chiamo io) il più insistente: vuol farmi promettere che tornerò. Gli rispondo che lo spero, un giorno, e lui mi chiede se quel giorno è lunedì. Dico che no, non fra tre giorni, ma in futuro. «Allora ritorni martedì?». Purtroppo il futuro è più tardi anche di martedì.

Elisa Pira

Banner Gazzetta d'Alba