VENEZIA Arriva al Lido la serie ispirata all’omonimo libro di Antonio Scurati, vincitore del Premio Strega, grazie al regista Joe Wright che porta il suo M – Il figlio del secolo in otto puntate atteso in esclusiva su Sky e Now nel 2025. Una storia kolossal sul ritratto moderno e graffiante di Benito Mussolini (interpretato dal bravissimo Luca Marinelli) e della sua ascesa politica, dalla fondazione dei Fasci di combattimento fino all’imposizione della più feroce dittatura che l’Italia abbia conosciuto. Una pellicola destinata a far discutere, che racconta la storia di un Paese che si è arreso alla dittatura e la storia di un uomo che è stato capace di rinascere molte volte dalle sue ceneri.
Per Luca Marinelli, non è stata una cosa semplice interpretare Mussolini: «Per fare questo lavoro onestamente devi sospendere il giudizio, e sospendere per i sette mesi delle riprese il giudizio su Mussolini da antifascista quale sono è stata una delle cose più dolorose della mia vita. Vengo da una famiglia antifascista e ne sono fermamente convinto, ma ho capito che interpretare il Duce poteva essere una maniera per prendermi una piccola responsabilità storica».
Il film ripercorre la storia dalla fondazione dei Fasci italiani nel 1919 fino al famigerato discorso di Mussolini in Parlamento nel 1925, dopo l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Oltre alla storia, emerge anche uno spaccato del privato di Mussolini e delle sue relazioni personali, tra cui quelle con la moglie Rachele, con l’amante Margherita Sarfatti e con altre figure iconiche dell’epoca.
La moglie Rachele era la depositaria del focolare domestico, le altre donne erano prede, conquiste, oggetti. Di mussolini emerge un uomo dall’appetito sessuale insaziabile e il sesso è stato un collante in tutti i suoi rapporti, compreso quello con Margherita Sarfatti, della quale aveva più rispetto perché la stimava dal punto di vista intellettuale, ma resta pur sempre un misogino.
Nella pellicola viene delineata molto bene la figura di Margherita (interpretata dalla bravissima Barbara Chichiarelli), la donna pigmalione di Mussolini più che l’amante, la burattinaia. Donna raffinata, ricca, colta, abituata a gestire il potere quando a nessun’altra era concesso e, soprattutto, la donna che ha di fatto inventato il Duce, una sorta di personale talent scout. Una donna avanti coi tempi, una poliglotta che, come pochissime donne allora, ha avuto un rapporto alla pari col padre e si è abituata a stare nella stanza dei bottoni, con una buona dose di cinismo e spregiudicatezza. Solo che il potere lo ha gestito come gli uomini. Una donna anche molto innamorata di Benito, ma sapeva allo stesso tempo annusare il futuro; infatti ha contribuito alla sua rapida ascesa perché era convinta che servisse un leader forte alla guida della nazione.
La scelta di far guardare in camera Mussolini che, in determinati momenti, si rivolge direttamente allo spettatore per raccontare i suoi veri pensieri ha per il regista un significato particolare: «Credo che non ci sia distinzione tra Mussolini uomo e politico, sono assolutamente inscindibili: il fascismo è la versione politica della mascolinità tossica. I toni grotteschi usati a volte sono stati una traiettoria scelta, perché era una cifra che gli apparteneva. Questo lato da “Bestia da palcoscenico” come veniva definito Mussolini, lo ha usato per arrivare al potere», dichiara Wright. Nonostante la presunta censura piovuta su Antonio Scurati, depennato qualche mese fa da un programma Rai, sia ancora una ferita aperta, l’autore del libro da cui è stata tratta la serie si mostra sereno e così commenta: «Ho sempre pensato che il cinema fosse il naturale prolungamento del mio romanzo-documentario. Trattandosi del fascismo era fondamentale raccontarlo con uno sguardo nuovo, ma sempre antifascista e pur nelle sue diversità credo che il film conservi la vocazione di rappresentare in forma mobilitante le coscienze degli spettatori e far capire quali seduzioni avesse il fascismo e far provare repulsione».
L’orto americano, diretto da Pupi Avati, è il film fuori concorso che chiude l’81ma edizione del Festival di Venezia, interpretato da Filippo Scotti, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Chiara Caselli, Rita Tushingham. Siamo a Bologna, ai tempi della Liberazione, un giovane problematico con aspirazioni letterarie si innamora al primo sguardo di una bellissima crocerossina dell’esercito americano. L’anno dopo, nel Midwest americano, lui andrà ad abitare in una casa contigua a quella della sua amata, separata solo da un nefasto orto. Lì vive l’anziana madre, disperata dalla scomparsa della figlia che non ha dato più notizie di sé dalla conclusione del conflitto. Inizia così da parte del ragazzo una tesissima ricerca che gli farà vivere una situazione terrificante, fino a una conclusione in Italia del tutto inattesa.
Tratto dal romanzo omonimo dello stesso Avati, il film è un horror gotico in puro stile avatiano, a dispetto dell’ambientazione che non è italiana. «Ancora una volta affrontiamo il genere gotico, in questo caso non solo confermando quei luoghi della nostra regione che sono risultati così significativi, ma allargandoci per la prima parte del racconto a quell’America rurale che è del tutto simile alla nostra Emilia-Romagna», dichiara il regista. È un film prodotto in bianco e nero per portare via dalla realtà lo spettatore e in questo riesce bene Avati, perché in questa pellicola l’inquietudine del racconto diventa inquietudine di tutti. È in questa Italia, a ridosso del concludersi della Seconda guerra mondiale, ancora intrisa dall’orrendo effluvio della paura e della fame in uno scenario di assoluta devastazione e nel recupero dei cadaveri dei tanti giovani militari, di uno o dell’altro fronte, nel tentativo di restituire un’affrettata legalità al contesto sociale, che si muove il protagonista del film alla ricerca disperata di un amore totalmente idealizzato. Sarà il mostrare proprio questa Italia ridotta in macerie, nella comparazione con la rassicurante America, a tratteggiare simbolicamente il disagio mentale che accompagna l’io narrante della storia, dove la necessità di un esplicito ritorno alla normalità porta ad affrettare giudizi e sentenze, in una condizione di necessaria prepotenza.
La premiazione
Dopo undici giorni di grande cinema è giunto il momento dei Leoni, la cerimonia di premiazione che ieri sera (sabato 7 settembre) ha visto sfilare sul red carpet registi, attori e personalità internazionali. Una grande edizione nel segno di Peter Weir, regista e sceneggiatore australiano (L’attimo fuggente, The Truman Show, Master & Commander), che ha ritirato il Leone d’oro alla carriera, con soli 13 film realizzati nell’arco di quarant’anni, si è assicurato un posto nel firmamento dei grandi registi del cinema moderno. Pur nella diversità dei soggetti affrontati, non è difficile rinvenire nel suo cinema, insieme audace, rigoroso e spettacolare, la costante di una sensibilità che gli consente di affrontare tematiche eminentemente moderne, come il fascino per la natura e i suoi misteri, la crisi degli adulti nelle società consumiste, le difficoltà dell’educazione dei giovani alla vita, la tentazione dell’isolamento fisico e culturale, ma anche il richiamo degli slanci avventurosi e l’istinto della salutare ribellione. Celebrando il gusto del racconto e l’innato romanticismo, Weir è riuscito nell’impresa di rafforzare il proprio ruolo nell’establishment hollywoodiano pur rimarcando una distanza piuttosto netta con l’industria del cinema americano. «La Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia e il suo Leone d’Oro fanno parte dell’immaginario del nostro mestiere, essere premiati per il lavoro di una vita come registi è un grande onore», ha dichiarato Peter Weir. Un’edizione storica che ha proposto un programma di altissimo livello, ancora una volta sotto la guida esperta di Alberto Barbera; con moltissime presenze il principale appuntamento italiano con la settima arte si è svolto a vele spiegate tra luccicanti red carpet e la proiezione delle pellicole.
Il Leone d’oro per il miglior film viene assegnato a The room next door di Pedro Almodóvar che narra di Ingrid e Martha, care amiche da giovani, quando lavoravano per la stessa rivista. Ingrid è poi diventata una scrittrice di romanzi semiautobiografici mentre Martha è una reporter di guerra e, come spesso accade nella vita, si sono perse di vista. Non si sentono ormai da anni quando si rivedono in una circostanza estrema ma stranamente dolce. Si tratta del problema di una donna agonizzante in un mondo agonizzante e di un’amica che sa starle accanto nonostante l’unica offerta è un dolore senza soluzione. L’invito è al rispetto per le scelte che ogni essere umano compie soprattutto nel momento di maggiore dolore.
Vermiglio di Maura Delpero si vede assegnare il Leone d’argento gran premio della giuria. In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può farsi donna. Un ventre gonfiarsi e divenire creatura. Si può smarrire il cammino che portava sicuri a casa, si possono solcare mari verso terre sconosciute. In quattro stagioni si può morire e rinascere. Il film racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia e di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino, essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.
Il premio Leone del futuro opera prima Venezia viene assegnato a Familiar touch di Sarah Friedland. Un film di tarda formazione; segue una donna ottantenne nella transizione alla vita in una casa di cura, mentre affronta il rapporto conflittuale con sé stessa e le persone che la assistono, tra il mutare della sua memoria, dei suoi desideri e della percezione della propria età. Con le convenzioni del racconto di formazione viene mostrato come tutti siamo sempre in crescita. Le storie di anziani sono periferiche nella nostra cultura, come se desiderio, sogni e autonomia decisionale decadessero molto prima dei nostri corpi e delle nostre menti.
Il Leone d’argento per la migliore regia va a Brady Corbet col film The Brutalist, che racconta la storia dell’architetto ebreo László Tóth emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947.
Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita.
Il Premio speciale giuria al film April di Dea Kulumbegashvili. Dopo la morte di un neonato durante il parto, l’etica e la professionalità di Nina, una ginecologa, vengono messe sotto esame per via di voci secondo cui eseguirebbe aborti illegali per chi ne ha bisogno.
Per la sezione Orizzonti il premio come migliore film viene assegnato al film Anul nou care n-a fost (L’anno nuovo che non venne mai) di Bogdan Mureşanu. Il 20 dicembre 1989 la Romania è sull’orlo della rivoluzione. Le strade sono piene di dimostrazioni, gli studenti deridono il regime con l’arte e gli spettacoli di capodanno glorificano Ceaușescu. Eppure, nel disagio delle loro case senza riscaldamento, le famiglie sono alle prese con conflitti personali e con l’onnipresente polizia segreta. Sei vite apparentemente scollegate s’intersecano in modi inaspettati. Mentre le tensioni raggiungono il punto di ebollizione, le unisce un momento esplosivo che culmina nella drammatica caduta di Ceaușescu e del regime comunista.
Si conclude così l’81ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nella quale sono stati selezionati moltissimi film, alcuni dei quali anche di durata considerevole, dove l’inclusione, il rapporto genitori figli, l’assurdità delle guerre, il preoccupante avvento delle destre radicali, le molteplici problematiche giovanili, la tenerezza e l’amore hanno fatto da sfondo all’intero festival. Un cinema per non dimenticare, un cinema per educare.
Walter Colombo, inviato a Venezia