Franco Cardini: «Mediterraneo. Nell’interesse di tutti»

Gli sbarchi a Lampedusa e la difficile gestione del problema. Ma anche i morti, i drammi consumati e le storie di vita affidate a quei barconi. Il Mediterraneo è divenuto ancora una volta teatro in cui s’intrecciano le speranze di alcuni e le polemiche di altri.

Franco Cardini è storico e docente di storia medievale all’Università di Firenze. Uno sguardo da storico su quanto sta succedendo oggi nel Mediterraneo.

Immigrati ad Alba: il dialogo è possibile«Il Mediterraneo è sempre stato un’area di scambio e confronto. Un’area fluida e soggetta anche agli scontri. Di specifico c’è una rinnovata mobilità da alcune aree che sono economicamentemaanche socialmente e politicamente disagiate verso le aeree più ricche. Dobbiamo considerare che dal Mediterraneo passa uno dei più importanti confini geografici del mondo il quale, in qualche modo, separa un miliardo circa di privilegiati che, secondo dati Fao e Onu, detengono globalmente il 90 per cento della ricchezza mondiale, dai circa cinque miliardi e mezzo di persone che vivacchiano con il restante dieci per cento delle ricchezze. Questa constatazione in realtà non sarebbe un grave problema storico ma una situazione storicamente normale di ingiustizia comese ne sono viste tante dall’alba dei tempi».

Dov’è allora il problema, oggi?

«L’elemento nuovo che si registra oggi è l’informazione. Pensiamo allo scambio asimmetrico che avviene da 500 anni, in cui noi occidentali ramazziamo e rivendiamo materie prime e forza lavoro al prezzo che imponiamo noi. In questo sistema, che fino a qualche tempo fa andava benissimo a tutti, gli occidentali hanno commesso un errore imperdonabile. Abbiamo venduto a queste popolazioni una merce che per il nostro stesso interesse non andava venduta e, cioè, l’accesso all’informazione che sta alla base anche della cosiddetta “primavera araba”, l’accesso a Facebook, a Twitter, alla circolazione delle notizie. E questo ha avviato un processo irreversibile».

Quale?

«L’equilibrio stabilito dalla società coloniale, sull’ala della quale l’Occidente ha organizzato tutta la sua vita da privilegiato, non funziona più. Ci sono quindi due problemi grossi da affrontare. Il primo è la distribuzione delle ricchezze, per risanare una giustizia che è stata violata. Il secondo problema, forse ancora più grave, è il livello a cui la tecnologia, il consumo, il benessere hanno portato il pianeta. Da un lato è vero che bisogna ridistribuire le ricchezze. Dall’altro, però, chi è stato informato del nostro livello di vita e vorrebbe conseguire qualcosa di simile, deve sapere fin d’ora che comunque vadano le cose, al livello a cui sono arrivate le nostre ultime tre generazioni non si potrà mai accedere. Perché se ciò avvenisse, il pianeta non sopporterebbe livelli così alti e diffusi di consumi e produzione e scoppierebbe».

Quale via d’uscita a questo punto?

«Bisogna cercare di far capire alla gente cosa sta realmente succedendo. E qui siamo all’anno zero perché abbiamo una pessima organizzazione dei media che dipende – credo – dalla fine del concetto di bene comune e di pubblico interesse. Più nessuno pensa di dovere qualcosa alla società in cui vive. E questo è un grave problema che si riverbera sull’opinione pubblica il cui livello culturale e anche morale è sempre più basso.

Altro elemento è la mancanza di conoscenza dell’altro, che è conoscenza anche temporale, storica, per cui ciò che avviene oggi si radica nella storia del Mediterraneo. Stiamo oggi vivendo una crisi acuta di un equilibrio cronico fatto di spostamenti e confronti ma in generale fatto di convivenza. Cosa è che ci impedisce oggi di guardare con un occhio di comprensione questa gente? Da un lato, l’apprensione di un processo che al momento sembra non avere fine. Ma, dall’altro, c’è anche il fatto che non conoscendo queste persone, non proviamo interesse per loro ma solo pregiudizio».

Cosa fare?

«Il primo passo da compiere è capire che gestire un problema come questo è nell’interesse di tutti. Si possono anche affondare i barconi, ma così si creano dei morti e i morti hanno dei parenti, e la maggior parte dei loro parenti non sarà sicuramente disposta a perdonare. Quindi facendo questi tipi di respingimenti semineremo solo morti e distruzione sui nostri figli. Magari non operiamo per generosità né per spirito umanitario né per motivi religiosi, però agiamo per nostro interesse. Oggi è nel nostro interesse gestire il problema a costo di prenderci tutti e ciascuno la quota di sacrificio che la situazione ci richiede».

A cura di Maria Chiara Biagioni

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