KÜBLER nella casa di DANIELA

Daniela non può parlare o muoversi, può solo battere le palpebre. Ha alcuni elettrodi su un casco appoggiato in testa; siede di fronte a uno schermo che si illumina a intermittenza. Attraverso il metodo Brain computer interface, gli scienziati tedeschi tentano di scovare una strategia per facilitarle la comunicazione. La psicologa e biologa Andrea Kübler, ricercatrice di fama mondiale, nel salotto dell’abitazione braidese dei Ferraro, sta armeggiando con macchinari e computer, fogli e calcoli tecnici, aiutata da due giovani ricercatori tedeschi

LA STORIA Partiamo il 30 novembre alla volta della casa di Daniela e Luigi, che è quasi introvabile senza navigatore. Per arrivare bisogna attraversare Bra e infilarsi in un dedalo di stradine. Sul citofono c’è il nome di lui e di lei, poi quello dell’associazione Amici di Daniela, fondata dopo la malattia di 7 anni fa, che ha stravolto la vita della coppia, dei due figli di diciassette e sette anni, di parenti e conoscenti.

Entriamo: ci accoglie il padre di Daniela. Dobbiamo intervistare la psicologa e biologa Andrea Kübler, ricercatrice di fama mondiale, che nel salotto dell’abitazione sta armeggiando con macchinari e computer, fogli e calcoli tecnici. È aiutata da due giovani ricercatori. Arrivano dalla Germania, sono a Bra da tre giorni. Sulla sedia a rotelle, Daniela non può parlare o muoversi, può solo battere le palpebre. Ha alcuni elettrodi su un casco appoggiato in testa; siede di fronte a uno schermo che si illumina a intermittenza Attraverso il metodo chiamato Brain computer interface, gli scienziati tentano di scovare una strategia per facilitare la comunicazione tra il mondo interno di Daniela e l’esterno.

Daniela sette anni fa è stata colpita dalla Locked-in syndrome, una patologia conosciuta al grande pubblico grazie al film francese del 2007 Lo scafandro e la farfalla, che racconta la storia vera di Jean-Dominique Bauby, famoso caporedattore di Elle. La Locked-in (il termine inglese significa “chiuso dentro”) immobilizza tutto il corpo tranne il flusso di coscienza (pensieri, emozioni). Molti pazienti considerati in stato di coma o vegetativo mantengono il proprio mondo interno attivo, ma questa condizione non viene riconosciuta: medici e familiari considerano “dormiente” una persona nel pieno delle proprie facoltà cognitive e affettive. Non è il caso di Daniela: Luigi Ferraro, suo marito, si è accorto dello stato vigile della moglie dopo l’evento emorragico che la precipitò in uno stato di apparente inconsapevolezza. Nonostante l’immobilismo muscolare Daniela poteva ancora sentire, capire, immaginare.

Con il solo battito delle ciglia Daniela ha scritto un libro di fiabe (di cui Gazzetta ha già parlato). Oggi ha bisogno di assistenza ventiquattro ore su ventiquattro. Il tempo scorre più lento qui, così come le parole e i movimenti. Nella casa di Bra – tra macchinari ospedalieri, assistenti e infermieri – si sentono frasi e gesti di ostinazione, spirito conoscitivo, intramontabile speranza, incredibile adattamento. Non una negazione del dolore, ma un dialogo costruttivo con il male, costante e difficile interlocutore.

Ci sediamo sul divano e parliamo con gli scienziati. La ricerca, ci dicono, «potrebbe migliorare la condizione di migliaia di persone come Daniela. Eppure, i fondi mancano sempre». La politica e le scelte umane, la gestione del settore sanitario e assistenziale allungano i tentacoli fin dentro le vite, intaccando le interazioni quotidiane di chi versa in condizioni di debolezza.

Daniela può contare su una rete di supporto familiare, sentimenti e presenze. Altri rimangono soli, scordati. Dopo due ore nella sua casa, ce ne andiamo con l’impressione che ogni tentativo di racconto risulterebbe vano di fronte alla complessità. Ma che in nessun’altra abitazione, in quel dedalo di stradine braidesi, sapremmo trovare la vita trovata lì dentro.

Matteo Viberti

 CHI È

Andrea Kübler è docente di psicologia presso il Dipartimento di psicologia, psicologia biologica, psicologia clinica e psicoterapia all’Università di Würzburg, in Germania. Lavora nel campo della Brain computer interface (Bci) fin dall’inizio del suo dottorato di ricerca nel 1996. I suoi sforzi si concentrano sull’aiuto a persone con disabilità motoria grave attraverso un mezzo di comunicazione che utilizza diverse componenti dell’attività elettrica del cervello.

CHE COS’È

DECODER. È un progetto europeo di collaborazione che sfrutta la Brain computer interface per la rilevazione della coscienza in pazienti non responsivi. Il team Decoder sta sviluppando diversi sistemi che consentiranno di valutare lo stato di coscienza nei pazienti non responsivi, utilizzando paradigmi di stimolazione dei canali sensoriali (uditivi, visivi, tattili), sensomotori e mentali. Il progetto è iniziato nel febbraio 2010 e si dovrebbe concludere nel 2013. Decoder ha presentato lo scorso aprile a Parigi, durante il primo International decoder workshop, i primi risultati, promettenti, al pubblico scientifico e no. Il progetto è coordinato da Andrea Kübler, dell’Università di Würzburg in Germania, con numerosi partners europei. Attraverso l’implementazione delle Brain computer interface (Bci) per i pazienti non responsivi sarà possibile accedere alle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come Internet o gli elettrodomestici. Per queste situazioni estreme, nessun ausilio tecnologico è oggi in grado di aiutare il malato a interagire con l’ambiente.

La farfalla che si attrezza per volare

L’INTERVISTA Parliamo con Andrea Kübler, biologa e psicologa, docente dell’Università tedesca di Würzburg. Il progetto sperimentale di ricerca (Brain computer interface) che coordina a livello europeo è finalizzato anche a migliorare la capacità comunicativa dei pazienti affetti da Locked-in syndrome. L’abbiamo incontrata nei giorni scorsi nell’abitazione di Daniela (vedi anche l’altro articolo di questa pagina).

Kübler, la sua ricerca pionieristica potrebbe spalancare orizzonti per Daniela e tutti coloro che esitano nella sua condizione. Ci può spiegare in cosa consiste il Brain computer interface? «Il nostro obiettivo è riuscire a velocizzare e migliorare la comunicazione di chi, malato ad esempio di Locked-in syndrome, non riesce a esprimersi se non con il battito delle palpebre. Il nostro team di ricerca ha studiato un pannello grafico contenente tutte le lettere dell’alfabeto. Ogni riga (verticale e orizzontale) del pannello, composta da una sequenza di lettere, si illumina a cadenza regolare grazie alla luce di un flash. Il paziente pensa a una parola da comunicare, che inizia ad esempio con la lettera “P”. Allora focalizza l’attenzione sulla lettera “P” del pannello. I macchinari rilevano l’impulso cerebrale corrispondente e registrano l’indicazione voluta».

Poi che cosa accade?

«Appena registra la prima lettera, il computer procede con una sorta di processo di inferenza: ovvero propone le lettere successive, quelle “probabili”. Ad esempio un gruppo di sillabe. A questo punto il paziente concentrerà di nuovo l’attenzione sulla sillaba corrispondente all’inizio della parola che intende comunicare. Pian piano si arriva al completamento della parola. Con questo metodo quindici anni fa riuscivamo a “individuare” due lettere al minuto. Oggi arriviamo fino a quindici. È una procedura più veloce rispetto alla tradizionale “lettura” vocale delle lettere da parte di un “aiutante” esterno. Il metodo include diverse versioni: ad esempio, al posto delle lettere possono esserci colori o volti, oppure il sistema può essere tarato per consentire navigazioni su Internet».

Passando all’epidemiologia della Locked-in, è vero che ci sono pazienti “svegli” dal punto di vista interiore ma, scambiati per incoscienti, vengono “abbandonati a se stessi” nei letti degli ospedali?

«Purtroppo gli errori diagnostici sono frequenti: può essere difficile capire quando un paziente è cosciente se versa in uno stato di totale immobilismo. Stiamo lavorando a nuovi metodi di rilevazione che consentano l’individuazione di questi casi particolari».

Come si spiega dal punto di vista “filosofico” l’accadere apparentemente casuale di emorragie o traumi capaci di provocare una sindrome “terribile” come la Locked-in?

«Io sono una scienziata. Mi rendo ogni giorno conto di quanto la macchina del corpo umano possa essere imperfetta. Queste cose ci accadono e basta, secondo un principio di apparente casualità. Anche alla persona più sana del mondo può accadere una malatti simile».

m.v.

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