Lavora in NERO uno su tre

L’INCHIESTA Viaggiamo nell’universo degli artigiani, degli imprenditori, dei lavoratori. La scorsa settimana abbiamo parlato del fenomeno del lavoro nero, oggi seguiamo un filo diverso, “incarnato” nella quotidianità, in presa diretta. Emerge la difficoltà nell’approccio a questo “fantasma”.

Domenico Visca, presidente di Confartigianato Cuneo (e titolare di un’officina meccanica a Montà), spiega: «La prassi prevede che, nel caso in cui si venga a conoscenza di un caso di “nero”, questo debba essere segnalato alle associazioni di categoria, che si rivolgono alla Camera di commercio. Quest’ultima invia una lettera all’interessato, esortandolo a “mettersi in regola”. Eppure, le segnalazioni non superano le quattro o cinque l’anno, una ogni due mesi. La regola “culturale” dei lavoratori artigiani non prevede la denuncia».

Si tratta, in realtà, di una sorta di “obbligata omertà”, dato che senza una minima parte di illecito molti artigiani sarebbero destinati al collasso. Prosegue Visca: «In un paese di Langa qualche tempo fa lavoravano sette imbianchini. Tutti in nero. Le percentuali di artigiani non in regola in provincia sono elevatissime, situazione comprensibile, considerando che gli artigiani sono schiacciati da un carico fiscale prossimo al 60 per cento. Se dovessi azzardare una percentuale, direi che il sommerso nel settore supera il 30 per cento, ovvero coinvolge un lavoratore su tre. Da quando è cominciata la crisi, abbiamo registrato un incremento del 10 o del 15 per cento dei casi».

Ha spiegato Simone Ghiazza, presidente dei Giovani di Confindustria Cuneo e titolare della Sgn, azienda meccanica con 12 dipendenti: «Confindustria ha un codice etico, ma il problema del lavoro nero resta difficile da affrontare. Nel settore meccanico, ad esempio, la concorrenza sleale (ditte che utilizzano lavoratori “fantasma”) è pressoché inesistente. Se parliamo di artigiani, invece, il fenomeno incrementa. La pressione fiscale sugli imprenditori è altissima, alcuni sono costretti a cercare almeno di sopravvivere. Peraltro, quando un imprenditore conosce un concorrente sleale, è difficile che lo denunci. La delazione non è contemplata».

Claudio Piazza, presidente regionale degli installatori di impianti gpl e metano e titolare di un’officina di autoriparazioni ad Alba, estende ad altre aree le conseguenze del sommerso: «In tempo di crisi il “nero” sta incrementando. Aumentano, ad esempio, i privati che effettuano in proprio manutenzioni sulle vetture, acquistando il materiale, per poi abbandonare dove capita i residui. Accade con l’olio usato delle auto nelle fognature o con le batterie nei fossi. Le irregolarità non causano solo danni economici al sistema, ma effetti secondari su innumerevoli aspetti del vivere collettivo».

Matteo Viberti

Il sommerso, antidoto per sopravvivere

L’anonimato è una condizione imprescindibile, imposta dagli intervistati quando si parla di lavoro nero.

Non è il caso di Paolo Bassino, fondatore della ditta di videogame Gotoo&play, il quale spiega: «Lavoriamo sui mercati internazionali, con pochi competitors. Il lavoro nero non ci riguarda, la concorrenza è leale e l’attività si svolge lungo canali legali. Le nuove tecnologie e le transazioni con l’estero sono tracciate, soggette a controlli».

Appare ottimista anche l’imprenditore tessile albese Olindo Cervella: «Alcuni settori sono esenti dal lavoro sommerso. Il sistema di sorveglianza statale è efficace, tale da impedire qualsiasi tipo di irregolarità. Se escludiamo i settori edile e agricolo, potremmo sostenere che ad Alba il lavoro nero è inesistente».

Eppure, nelle interviste telefoniche con i negozianti langaroli emergono verità differenti. «Mi è capitato, nel corso degli anni, di assumere ragazzi senza contratto», dice una pasticcera, che scegliamo per portare un esempio delle dichiarazioni che riceviamo. «La paga che ricevevano in cambio del lavoro ammontava a circa sei, sette euro l’ora. Non molto, certo,masi trattava di giovani animati dal desiderio di apprendere».

La possibilità di fare esperienza e di crescere diventa una moneta equivalente al denaro. Una dinamica che riscontriamo anche nelle parole del titolare di un bar: «Durante la stagione estiva molti liceali mi chiedono di lavorare. Sovente sono spinti dai genitori, che vogliono vedere il figlio impegnato. Per questo i giovani si accontentano di una retribuzione bassa. Mi piacerebbe pagarli di più, ma il carico fiscale e la contrazione della clientela nel periodo di crisi non consentono altri trattamenti».

Variabili familiari e sociali intervengono talvolta nello spiegare la disponibilità a sottostare a condizioni penalizzanti. Come nel caso di Arturo, 22 anni, albese, il quale ha lavorato per molto tempo come cameriere nel campo della ristorazione. «Nella vita vorrei fare l’artista. Per due anni ho creato opere, ma monetizzare la produzione è difficile in Italia, dove la cultura e l’arte sono sottovalutate. Così, nel paragone con i miei amici che portavano a casa soldi, mi sono sentito umiliato. Per questo ho accettato l’impiego in un ristorante, cominciando ad abituarmi all’idea che, per sopravvivere, serve scendere a compromessi. Con i soldi che guadagnavo compravo i materiali per disegnare. Ero d’accordo con i miei datori di lavoro: l’assenza di contratto conveniva a entrambi. Oggi ho deciso di partire, di cercare all’estero possibilità. A lungo termine, l’umiliazione iniziale per l’assenza di lavoro si è trasformata in rabbia per un sistema incapace di tutelarmi».

LA STORIA L’ho fatto per obbligo, non per scelta

Parliamo con Christian, padre e dipendente di un’azienda albese.

Quale ruolo ha avuto il lavoro nero nella sua vita, Christian?

«Il lavoro nero mi ha salvato. La mia storia ha inizio circa 26 anni fa, quando presi a lavorare come elettricista. Dovevo mantenere mia moglie e mio figlio, il lavoro in fabbrica non era sufficiente. Ricordo che faticavamo a comprare la pizza una volta a settimana: quando ci riuscivamo, era una specie di festa. Nei week-end o dopo l’orario regolare, cominciai a realizzare impianti o riparazioni nelle case di amici. Poco per volta allargai il giro. Il guadagno era buono, perché acquistavo in nero anche l’attrezzatura. Nei lavori di grande entità, invece di spendere duemila euro, riuscivo a cavarmela con 1.500-1.600 euro».

Come acquistava il materiale in nero?

«Grazie alle conoscenze. Credo che ancora oggi esista un “microcircuito” di materiale non tracciato. Dalla creazione alla vendita, i prodotti per lo Stato o il fisco è come non esistessero. Tutto ciò mi consentiva di farmi pagare 10, 12 euro l’ora. Una ditta non potrebbe permettersi simili cifre, la tariffa media non scende sotto i trenta euro orari».

 Oggi la sua attività “fantasma” prosegue?  

«I rischi di lavorare in nero erano tanti. Ad esempio, la sicurezza, il pericolo di non essere pagati, la paura di incappare in controlli. Ho deciso di smettere, mia moglie ha cominciato a lavorare e la situazione economica della famiglia ora è stabile. Ma conosco ancora persone che, dopo i turni in fabbrica, realizzano lavori per altre ditte o per privati. Il clima di crisi è pesante, bisogna arrangiarsi in qualche modo. I clienti, dal canto loro, sono ben contenti di risparmiare su manutenzioni altrimenti carissime».

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