Lorenzo Milani, il prete scomodo e maestro di vita

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CONFERENZA Chiude il 26 aprile a Ceresole la serie d’incontri lanciata da Gazzetta d’Alba nel quadro delle iniziative per i 135 anni dalla fondazione, in collaborazione con la parrocchia e la Pro loco. L’ultimo degli appuntamenti dal titolo “I buoni maestri” – preso a prestito dalla collana di volumi di recente allegata al settimanale Famiglia Cristiana – si terrà nella confraternita di San Bernardino, in piazza Vittorio Emanuele: parlerà di don Lorenzo Milani il direttore di Vita Pastorale don Antonio Sciortino, coadiuvato da letture tratte dal volume della San Paolo a cura di Gian Paolo Montisci e da musiche di Maurizio Ribotta. L’introduzione sarà del parroco di Ceresole don Eugenio Viberti. A don Sciortino chiediamo di tratteggiare la figura del sacerdote.

Fin dal tempo del Seminario don Lorenzo Milani ebbe una grande fede e un rapporto difficile con la Chiesa: sono questi i tratti del prete di Barbiana, riabilitato da papa Francesco?

«Don Milani è stato un prete “scomodo”. Per lo meno così l’ha ritenuto la sua Chiesa fiorentina che, per farlo tacere, lo esiliò a Barbiana. La sua colpa? Essere stato un “profeta”, anche se incompreso, e aver visto più lontano di tutti, anticipando il concilio Vaticano II. Don Milani aveva fame e sete di verità e di giustizia. Sempre dalla parte dei più deboli, ha difeso gli ultimi e ridato dignità ai poveri. Per questo, sia dentro che fuori dalla Chiesa, i “potenti” l’hanno perseguitato. E gli hanno fatto pagare duramente la sua coerenza al Vangelo. Accusato di tutto: d’essere “un prete di sinistra”, un “rivoluzionario”, un “contestatore”, un “sovversivo”…, don Milani era semplicemente un prete. E basta. Era, come lui stesso disse, “un disobbediente ubbidientissimo” alla Chiesa. Era un prete che aveva deciso di servire davvero Dio nei poveri, seguendo fedelmente il Vangelo senza annacquarlo. “Il Vangelo”, diceva, “non è accomodante, è urtante”. Come il linguaggio del priore di Barbiana contro ogni forma di conformismo, ipocrisia e ingiustizia. Oggi, grazie a papa Francesco che l’ha riabilitato, don Milani s’è preso una rivincita sulle tante falsità e cattiverie patite. Forse, perché molte sono le affinità tra questi due pastori: a cominciare dall’amore per l’insegnamento e l’educazione dei giovani, alla lotta contro una religiosità che è solo conformismo ed esteriorità, all’avversione contro ogni ostentazione di ricchezza e di potere, al prendersi cura dei piccoli e indifesi».

Che cosa ci ha lasciato davvero la scuola di Barbiana, divenuta, forse suo malgrado, simbolo del Sessantotto, attraverso il libro Lettera a una professoressa?

«La scuola di don Milani era molto esigente. Affatto permissiva. I ragazzi andavano a scuola tutti i giorni dell’anno, senza vacanze. Ma era una scuola che insegnava a vivere, a riscattarsi da una condizione di inferiorità ed emarginazione. Una scuola che dava ai ragazzi la possibilità di entrare da protagonisti nella società, per cambiarla. Aveva obiettivi nobili e alti. E, soprattutto, non lasciava indietro nessuno. Purtroppo, questa lezione di Barbiana, che don Milani ha espresso nel suo famoso libro Lettera a una professoressa, non è stata recepita dalla scuola d’oggi, ancora troppo selettiva. E con una dispersione altissima, dovuta allo scarso interesse per l’educazione. Da parte di tutti. La scuola si limita ancora a impartire nozioni, ma fatica a preparare alla vita. E a inserire i ragazzi nella società e nel mondo del lavoro. Poi, i recenti casi di cronaca, che mostrano ragazzi che insultano gli insegnanti, e genitori che picchiano i docenti, a difesa dei figli bulli, ci dicono quanto la nostra scuola sia lontana dal modello di Barbiana. Di cui tanto ci sarebbe bisogno. Quella di don Milani, che alcuni avevano definito “la cattedra del niente”, s’è rivelata una vera “cattedra del sapere”. E del vivere».

Maria Grazia Olivero

 

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