Nel Roero si archibugia chi non rispetta la quarantena

Nel Roero si archibugia chi non rispetta la quarantena

STORIA /3 Anche nell’Albese, riporta Molino nel libro del ’99 su Eresie, masche e stregonerie, si cercava di ottenere l’olio della lampada votiva di Santa Maria delle grazie. I miracoli servivano anche perché, per fare un esempio, a Sommariva Bosco nell’estate del 1630, infuriando la peste, il medico Torto dichiarava di «non voler andare visitare né toccare alcun ammalato in questi tempi pericolosi di contagio». È uno degli episodi che il preside del liceo Govone di Alba, Roberto Bergadani, pubblicò nel libro La peste nel 1630-31 in alcuni villaggi del Piemonte del 1950.

Sarebbe ridicolo avvicinare una pandemia letale – la peste in una società senza difese sanitarie, travagliata da guerre e afflitta dalla carestia – e un’epidemia virale, trattata con i migliori e moderni criteri di profilassi e medicina. Ma per noi, frastornati dalle continue informazioni sugli sviluppi dell’epidemia di coronavirus, il testo di Bergadani è utile per comprendere alcuni comportamenti che possono avere gli uomini posti di fronte a una grave emergenza.

I villaggi considerati nello studio del Bergadani sono in quello che oggi chiamiamo Roero, che nell’epoca della seconda guerra del Monferrato è travagliato dal passaggio di truppe, col carico di violenza e distruzione che ciò comporta. Il contagio si sviluppa in momenti diversi nel 1630 e continua per buona parte del 1631. Le norme del magistrato di sanità da Torino riguardano soprattutto la «quarantena in casa e alle frontiere, la segregazione di luoghi infetti, lo sbarramento delle strade… la disinfezione delle case e delle robe»: sono, ricorda Bergadani, provvedimenti «inefficaci e insufficienti». Anche le chiese sospendono le funzioni religiose «che portino congregationi o cumulo di popolo, restando tali divotioni dannose alla pubblica sanità». Un precetto non sempre osservato: la comunità di Magliano trasgredisce celebrando un rito propiziatorio al cimitero con emissione di un voto solenne alla Madonna il 1° novembre 1630.

Le porte e le vie d’accesso dei villaggi sono chiuse e sorvegliate da armati. I Consigli comunali sono tenuti nei prati. I medici per i non contagiati emettono bollette di sanità, dei moduli prestampati indispensabili per poter lasciare il paese e accedere a una località espressamente indicata: si riporta il nome e la descrizione dei tratti fisici della persona che si «parte da questo luogo sano (per Iddio gratia) et senza sospetto di contagione». Si costruiscono lazzaretti per isolare i contagiati e i sindaci reclutano monatti per recuperare i cadaveri e gli ammalati più gravi nelle case. Monteu Roero si affida, per i malati, alle cure di un «cerusico brutto» (chirurgo), che però, dopo una complessa trattativa economica, muore di peste senza entrare in servizio ed è sostituito temporaneamente da un siciliano, Pietro Orlengo.
Il principe Carlo Alessandro d’Este, nipote del duca di Savoia, che per sicurezza dimora a Sommariva Perno, avverte il segretario ducale di come alcuni agricoltori, «non tementi» per «ingordiggia», «vanno di notte con frutti nei luoghi sospetti» per venderli, e chiede provvedimenti.

La comunità di Ceresole, poiché Giovanni Capello, «infetto e impestato», e la sua famiglia non hanno ottemperato all’ordine di quarantena, ordina alle guardie, qualora si imbattessero in lui, di «archibugiarlo senza incorso di pena». Le limitazioni alla viabilità non sono rispettate quasi dappertutto; Ceresole prevede gravi sanzioni per chi transita «fori dalle strade pubbliche» oppure apre varchi nelle palizzate che chiudono il paese. Le informazioni circolano con grande difficoltà anche tra paesi molto vicini; Bergadani ricorda come la comunità di Canale nel 1630 paghi otto scudi a Biagio Rolandino «per un viaggio a Piobes per intendere se la contagione era Corneliano». Gli untori, per panico, isteria collettiva o interesse, accusati di diffondere il contagio tramite unguenti ricevuti dal demonio, sono giustiziati. Già durante la pestilenza del 1599 tale Margherita Minassa era stata decapitata ad Alba con questa accusa. Casi di untori sono segnalati a Bossolasco, a Novello dove sarebbero morte 150 persone per l’azione malefica.

Nel 1633 al Senato di Torino inizia un processo contro una famiglia vezzese, i Facino, il cui padre aveva minacciato di ungere le guardie che non volevano farlo entrare in paese senza aver fatto la quarantena. I coniugi Facino sono giustiziati e la loro figlia minore Lucia viene fustigata nelle carceri perché, andando a mendicare, avrebbe unto le porte del castello. Ricorda Bergadani: «Bastava un nonnulla per accendere la fantasia già esaltata, a far parere realtà ciò che era soltanto apparenza o pura invenzione di burloni e di malintenzionati».

Luciano Cordero

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