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Nascono pochi bimbi: il futuro ci spaventa

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L’INCHIESTA Per anni le società occidentali hanno dominato il mondo, colonizzando gli Stati più deboli. Oggi, si assiste a un rovesciamento: molte nazioni che abitavano le retrovie stanno crescendo, non solo economicamente ma anche demograficamente, mentre l’Occidente sembra annaspare e rinunciare a rinnovarsi. Questo grave ripiegamento appare osservando la curva delle nascite, che da anni procedono in picchiata. Perché non desideriamo più fare figli? È indizio di smarrimento della speranza? Per comprendere che cosa sta accadendo è necessario partire dai numeri.

A inizio febbraio sono stati pubblicati i primi dati Istat del 2020: si è verificato un fenomeno ormai consueto, ma in peggioramento: i nuovi nati sono stati 400mila a fronte di 700mila decessi. Il saldo significa 300mila italiani in meno, un risultato drastico, mai raggiunto prima.

L’istituto di ricerca Ires Piemonte ha fornito in anteprima a Gazzetta d’Alba i dati demografici del 2019: i nati in regione sono stati 28mila, una cifra record al ribasso, circa mille bambini in meno rispetto all’anno precedente e in calo del 27% sul decennio. All’inizio degli anni Cinquanta il Piemonte, che già si caratterizzava per un tasso di fecondità basso (1,5 figli per donna), registrava circa 40mila nascite l’anno.
Perché accade? Spiegano all’Ires: «Con l’emigrazione da altre regioni, durante gli anni del “miracolo economico”, le nascite in Piemonte sono aumentate, non solo perché sono cresciute le donne in età fertile ma anche perché le immigrate si caratterizzavano per una propensione a fare figli più elevata delle piemontesi. In pieno baby boom, a metà anni Sessanta, si toccano le 65mila nascite. Per circa vent’anni è seguito un periodo di calo (baby bust): le seconde generazioni, cioè, hanno allineato i propri modelli riproduttivi alla bassa fecondità sabauda. Dalla seconda metà degli anni Novanta al 2008 c’è stata una lieve ripresa delle nascite, di nuovo collegata principalmente all’arrivo d’immigrati, questa volta dall’Est Europa e dal Sud del mondo: le straniere mostrano un tasso di fecondità più alto di quello delle italiane (nel 2006 era 1,17 per le italiane e 2,52 per le straniere)».

Negli anni recenti, però, le nascite sono tornate a contrarsi (si vedano anche gli altri pezzi di queste pagine). Considerando come la crisi economica iniziata nel 2008 si sia complicata a causa della pandemia, la riduzione del tasso di fecondità sembra variare in maniera proporzionale al benessere materiale. Ma non è sempre così: non si spiegherebbe la ragione per cui, a partire dagli anni Settanta (di relativo benessere) le nascite si siano arrestate.
Secondo Philip Jenkins, storico e docente alla Baylor university e autore di numerosi volumi sul tema della fertilità, «se si guardano i Paesi del mondo, le società a bassa fecondità hanno poca fede; mentre le società ad alta fecondità hanno molta fede, indipendentemente da quale». Questa prospettiva è stata ripresa a inizio febbraio dal Cisf, il centro internazionale di studi sulla famiglia della San Paolo. Secondo l’ipotesi, il processo di secolarizzazione della società e l’allontanamento dalla spiritualità potrebbero rappresentare fattori cruciali nello spiegare il basso tasso di fertilità: le persone, intrappolate in una visione individualistica della vita – quindi protese verso il miraggio dell’autorealizzazione personale – potrebbero essere portate a percepire il figlio come un “ostacolo” al compiersi del proprio percorso. Tuttavia, la spiritualità e la fede potrebbero non essere i soli elementi correlati al fenomeno. Piuttosto, pare chiara la necessità per le donne di avere un lavoro e di usufruire di servizi adeguati (a esempio, l’asilo nido o la scuola materna) a sostenere la possibilità di pianificare una gravidanza. Le persone rinuncerebbero a fare figli non a causa del loro individualismo, ma per la difficoltà a organizzare la propria vita in un sistema sprovvisto di tutele, sicurezze e servizi adeguati.

Nell’Albese, il saldo demografico è negativo

Secondo il bollettino epidemiologico pubblicato a fine gennaio dall’Asl Cn2, la popolazione residente nei 75 Comuni a fine 2019 ammontava a 171.262 abitanti, il 3,9% dei residenti in Piemonte. Il totale era diminuito rispetto al 2010 di 195 persone. Nel 2019 i nuovi nati sono stati 1.226, mentre i decessi ammontavano a 2.028, 79 in più rispetto al 2018. Dunque, il saldo naturale, ovvero il rapporto tra nuovi nati e morti, nel 2019 è stato molto negativo (-802).

Il tasso di natalità nell’Asl di Alba-Bra nel 2019 è stato pari a 7,2 per mille residenti. Sebbene migliore rispetto alla media italiana (7) e piemontese (6,4), il dato appare molto basso, se paragonato alla media nazionale anche solo di 20 anni fa (nel 2002 il tasso di natalità italiano era a 9,5). Un altro numero importante è il cosiddetto indice di carico di figli per donna in età feconda, determinato dal rapporto tra i bambini di età inferiore a 5 anni e il numero di femmine tra i 15 e i 50 anni: nel 2019 in Italia è stato pari a 19,9 (nel 2010 era invece a 20,4), mentre in Piemonte arrivava a 18,3. La situazione appare grave, perché lascia presupporre un futuro senza giovani. Ma che cosa si può fare dal punto di vista concreto per sostenere la natalità? «Indicherei, per esigenze di sintesi, tre linee d’azione», spiega la ricercatrice di Ires Piemonte Carla Nanni. «La prima è il sostegno al lavoro femminile: nei Paesi del Nord Europa, dove i livelli di occupazione delle donne sono più elevati, sono più alti i gradi di fecondità. I posti di lavoro devono essere stabili; comunque la stabilità della situazione economica va garantita da un solido sistema di ammortizzatori sociali. La seconda linea d’intervento riguarda i servizi per l’infanzia, che non dovrebbero essere a domanda individuale ma divenire ad accesso universale, con costi contenuti e offerta di qualità. In terzo luogo conta la promozione di organizzazioni del lavoro che permettano di conciliare meglio l’occupazione con la vita».

Maria Delfino

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