Il miele d’acacia sparito, perlomeno dagli alveari

MIELE Più che una campagna di raccolta, il 2021 degli apicoltori è una corsa a inseguimento: obiettivo, i fiori di tigli, castagni e dei prati stabili d’altura, i soli che possano salvare una stagione compromessa dalle condizioni meteorologiche difficili che hanno liquidato i fiori d’acacia, il raccolto più importante per le aziende.

Claudio Cauda di Montà, un veterano dell’attività, parte dalle gelate del 7 e 8 aprile: «Il problema, quando la temperatura scende a meno cinque, è che fiori come l’acacia (nota ai piemontesi come gaggia) sono morbidi e vengono danneggiati pesantemente. La pianta è fiorita sulla seconda gemma, ma il ritorno del freddo a maggio non ci ha favoriti: in natura c’è bisogno di quella stabilità che i mutamenti climatici stanno sconvolgendo». Le ripercussioni non riguardano solo la perdita cosiddetta viva, cioè il miele che non è stato messo da parte dai pronubi, ma lo sviluppo stesso delle famiglie d’insetti: «Noi diciamo che le api fanno il miele e il miele fa le api», riprende Cauda. «Se gli insetti non producono, i gruppi entrano in sofferenza. Non solo perdiamo il 70 per cento della produzione e dobbiamo intervenire somministrando sostanze zuccherine per nutrire le api: i gruppi si ridimensionano, gli esemplari anziani si lasciano morire e le famiglie non investono su nuovi insetti. In altre parole, alla ripresa delle fioriture rischiano di non avere “operai” sufficienti».

Il miele d’acacia sparito, perlomeno dagli alveari

A Vezza Marco Pezzuto ha trecento arnie: «Si è iniziato a raccogliere qualcosa negli ultimi quindici giorni: a metà luglio la stagione sarà finita. Abbiamo ancora tempo una ventina di giorni con le fioriture dei castagni nel Roero e soprattutto in montagna». Azzerata o quasi la resa dell’acacia, «che di solito usavi per pagare le spese, vendendo il miele anche a dieci euro il chilo all’ingrosso. Quest’anno sono arrivato a metà giugno senza nemmeno un chilo di prodotto in laboratorio mentre le scorse annate se ne ottenevano dieci da ogni arnia, quantità già inferiori a quelle di alcuni decenni fa: l’acacia arrivava a far produrre 30 chili per alveare in media». Non si tratta di un fenomeno locale: «In tutta Italia la fioritura non si è raccolta; lo stesso vale per il Mezzogiorno, con il miele di agrumi». Il gelido aprile ha fatto strage di fiori di acacia: «Si è salvato qualcosa solo in alta collina, nel fondovalle nulla, ma il poco miele ricavato le api se lo sono mangiato per sopravvivere». La stagione era iniziata bene, con la raccolta di tarassaco e ciliegio: «La differenza l’hanno fatta, oltre alle gelate le temperature più elevate a febbraio che non a maggio», conclude il giovane apicoltore.

La terza voce è Luca Bosco di Priocca: «Per fare un paragone calzante è un poco come se un’azienda viticola dell’area del Barolo avesse perso il raccolto di Nebbiolo e dovesse tamponare la stagione con altri uvaggi: questo è stato per noi perdere il raccolto di acacia». In termini economici il danno patito dalle aziende «ammonta a 250 euro per ogni arnia fra mancati introiti e spese extra per la nutrizione delle api. Solo la somministrazione dello sciroppo (il composto zuccherino col quale si sono nutriti i pronubi) ha richiesto cinque interventi e ore di lavoro».

Le prospettive future non sono rosee: «Ci rimangono tre fioriture montane: castagno, tiglio o millefiori dei prati alpini. Ne sceglieremo uno: tutti e tre non si possono fare». A preoccupare non è soltanto la contabilità in rosso, ma la mancata percezione, sul mercato della grande distribuzione, di quanto è successo: «Il raccolto dell’acacia, a quanto sappiamo, non si è fatto in tutta Europa, eppure lo stesso miele si trova regolarmente in vendita sugli scaffali dei supermercati». I consumi sono in aumento «ma la disponibilità di prodotto diminuisce da anni, il pericolo di sofisticazioni alimentari è concreto», spiega. Il principale indiziato è il miele cinese, «un composto di glucosio sintetizzato in laboratorio, con aggiunta di pollini del Nord Italia, disponibile sul mercato a poco più di un euro il chilo. Basta “tagliarlo” con un po’ di miele d’acacia nostrano e si rivende il tutto, in vasetto, a dieci euro il chilo, con ricavi vertiginosi». Una dinamica che rischia di far chiudere decine di realtà del settore, messe di fronte a costi di produzione ben superiori: «Fino a sei euro il chilo, se si considera che all’ingrosso guadagniamo, in media, sei euro e 50 centesimi, il conto è presto fatto. Rischiamo di doverci scontrare, oltreché coi mutamenti climatici, anche con un mercato viziato nel quale il nostro miele non troverà più spazio».

d.g.

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