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Bertello: «Racconto le osterie nei caratteri antichi e nelle versioni d’oggi»

Bertello: «Racconto le osterie nei caratteri antichi e nelle versioni d’oggi»

L’INTERVISTA Luciano Bertello è l’autore di Osterie della tradizione tra Langa, Roero, Monferrato e Tortonese (San Paolo edizioni), che Gazzetta presenterà il 21 novembre alle 18 al teatro Sociale di Alba e regalerà ai propri abbonati.

Quali sono le sue fonti di ispirazione nella scrittura?

«Nuto Revelli, che ho frequentato, e Mario Rigoni Stern, che ho letto e conosciuto, sono state figure di riferimento, anche sotto il profilo dello stile narrativo. Localmente stimo lo storico Baldassarre Molino come un gigante della ricerca d’archivio, per serietà e profondità d’indagine, nonché per le qualità umane. Per altri versi, formative sono per me state le amicizie con Nico Orengo e Giovanni Tesio».

ll rapporto con la scrittura gastronomica: quali i passaggi che l’hanno portata a realizzare opere in questo campo?

«Si tratta di un interesse culturale collegato agli studi sulla cultura materiale contadina. Il cibo è un elemento fondamentale della quotidianità, della ritualità e della socialità. Per cui scrivere di cibo è per me un modo per cercare e raccontare l’anima di una civiltà millenaria. In casa, poi, mia mamma e mio papà hanno sempre fatto della tavola l’altare della religiosità e dei valori familiari».

Luciano Bertello

Quali sono le principali difficoltà e quali invece le soddisfazioni legate al processo creativo?

«Cercando l’anima della civiltà della tavola, la difficoltà sta nello spostare il racconto sui contenuti antropologici, sui gesti e sulla memoria. Nel far capire che ogni storia è unica e irripetibile e che merita il massimo rispetto; nell’indurre al racconto, visto che quasi sempre le storie più belle sono nascoste, in quanto ritenute insignificanti. Le soddisfazioni stanno anche solo in una parola, in un sapore, in una suggestione ritrovati e utilizzati come chiave del racconto. Sono felice quando dopo la lettura mi sento dire: “noi siamo proprio così”».

Come è nato il libro sulle osterie?

«È nato da una rubrica tenuta su Gazzetta d’Alba nei due anni di pandemia. L’obiettivo condiviso con la direzione, e grazie anche al contributo di Banca d’Alba, era di sostenere e dare animo ad attività che hanno un ruolo importante per i piccoli paesi non solo a livello economico e turistico, ma anche sociale. Nello specifico si tratta di 55 storie scelte secondo l’unico criterio della narrazione, ovvero della storicità e della fedeltà ai luoghi, nella convinzione che dietro a una storia bella abitino sempre sapori buoni. Un viaggio dal Monregalese al Tortonese, fermandosi soprattutto tra Langa, Roero e Monferrato, sul filo della tradizione di osteria: raccontata nei suoi caratteri antichi e nelle contemporanee interpretazioni. Ovviamente ci sono le ricette e ci sono tutti i piatti identitari legati alla civiltà della tavola tra le colline del vino nel basso Piemonte: dalla carne cruda al vitello tonnato, dal fritto misto al carpione, dai tajarìn alle raviole, dalla finanziera al brasato, dal bonét al mattone. Ma non ci sono giudizi critici o classifiche, giacché il libro si pone come un omaggio a dinastie di osti che hanno fondato la gloriosa cucina tradizionale albese. Esempi di imprenditorialità, di laboriosità, di creatività e di resilienza, di tenace attaccamento ai luoghi e alle tradizioni. Non un libro di nostalgici ricordi, bensì di positività e di fiducia nel futuro».

Dal punto di vista gastronomico, cosa sta accadendo nel nostro territorio e nel panorama internazionale? Perché secondo lei il cibo è diventato così “centrale”?

«In questi ultimi decenni l’enogastronomia albese ha conosciuto una vera e propria rivoluzione economica e culturale, ancora tutta da raccontare. C’è però il rischio concreto di appiattirsi sui contenuti superficiali e facili del ripetitivo, del generico o del folcloristico. O peggio ancora di scadere nell’omologazione turistica. È importante invece affermare i nostri valori culturali attraverso l’ap-
profondimento storico e la contestualizzazione delle ricette, legandole ai luoghi e al paesaggio. Anche con una funzione etica. Il periodo di pandemia ha cambiato molte cose: ha rivalutato il mondo della campagna; ha fatto riscoprire botteghe di vicinato e paesi; ha riportato in tavola il piacere della cucina casalinga e la riscoperta dei territori. Risulta pertanto strategico ripartire con una comunicazione attenta al territorio, alla sua cultura, alla sostenibilità ambientale, alle atmosfere agresti o storiche».

Tornando al libro, può indicare una delle storie di famiglia che più l’ha colpita?

«Mi è pressoché impossibile sceglierne una. Sono storie di fatiche, di speranze, di sacrifici, di passione. Storie di sapori e di saperi che si pongono come patrimonio ereditario di stupende famiglie di osti. Tante storie che insieme compongono il racconto bello di terre e di tempi di malora rivoltati in miti e, proprio grazie all’enogastronomia, elevati a motore di sviluppo economico e di turismo internazionale. Se proprio devo scegliere, direi una di quelle che sono rimaste fuori da questo primo lavoro e quindi ancora da raccontare».

Una serata al Sociale con Calabrese e chef stellati

In occasione dei 140 anni di Gazzetta d’Alba, con l’abbonamento all’edizione cartacea o digitale i lettori potranno ricevere il volume Osterie della tradizione tra Langa, Roero, Monferrato e Tortonese di Luciano Bertello, che sarà presentato lunedì 21 novembre alle 18 nel teatro Sociale di Alba, con interventi di Giorgio Calabrese e degli chef Massimo Camia, Enrico Crippa, Walter Ferretto, Anna Ghisolfi e Davide Palluda, oltre agli intermezzi musicali di Marcel, Walter Porro e Pippo Bessone. Protagoniste dell’opera la tradizione gastronomica, le storie familiari e le antiche ricette che hanno reso il territorio meta di milioni di turisti da tutto il mondo. L’autore si è laureato con una tesi di ricerca sul Roero contadino tra le due guerre mondiali: ha poi approfondito i temi relativi al paesaggio agrario e alla civiltà contadina.

Spiega Bertello: «Il titolo del libro può sembrare enfatico. Anche retorico nel richiamo all’osteria, uno dei miti più seducenti della civiltà della tavola. Allora bisogna chiarire la motivazione della scelta della formula Osterie della tradizione. Certo, l’osteria carte-fumo-vino-canti-alterchi e segatura sul pavimento non esiste più. La rimpiange già nel 1921 Hans Barth nel suo bel libro Osteria, impreziosito dall’introduzione di Gabriele D’Annunzio. La evocano tanti ricordi di osti e ristoratori nonché alcune insegne. Ma tutti, osterie o trattorie o ristoranti che siano, la onorano come fonte di ispirazione culturale».

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Davide Palluda, a destra, con Enrico Crippa

«Rimpianta in ogni tempo, l’osteria, sotto mutate spoglie e insegne, sopravvive alle mode e ai tempi. Perché è un bisogno psicologico di semplicità, autenticità, convivialità. Tanto più oggi, dopo questi anni malati. Il libro, dunque, racchiude esempi e valori eterni per una ripartenza attenta ai territori, alla cultura, alla sostenibilità ambientale, alle atmosfere agresti e storiche». Secondo Bertello, quanto detto sulle osterie vale anche per il concetto di tradizione. Che non va intesa come una palude, bensì nella sua natura dinamica di passaggio di valori, di saperi e, nel nostro caso, di sapori da una generazione all’altra. Con le inevitabili contaminazioni con le sensibilità individuali, con i luoghi e con i tempi».  

Sara Elide

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