
ABITARE IL PIEMONTESE «Ride bene chi ride a giugno», soleva esclamare in classe il compianto professor Bonardi quando qualcuno osava sghignazzare tra i banchi. Il proverbio, modificato appositamente per gli studenti, faceva presagire che a giugno sarebbero arrivati gli scrutini, le pagelle e, quindi, i verdetti di tutto l’anno scolastico. Eccoci qua, nel cuore di giugno, a parlare del verbo bocé e del suo conseguente sostantivo bòcc. Da non confondere con bòcia (di cui già parlammo a proposito di reclute e teste rasate), originariamente bòcc non è altro che un corpo di forma tondeggiante, come il pallino nel gioco delle bocce (chiamato anche bol, bolin, bocin).
Il suo significato si estende in vari campi e metafore. Il modo di dire sossì o flamba ‘ȓ bòcc (questo centra il pallino) esprime qualcosa di ideale, sinonimo di perfezione. Avej ‘ȓ bòcc an man (avere il pallino in mano) significa essere padroni della situazione (come il corrispondente italiano avere il coltello dalla parte del manico), poiché chi possiede il pallino può lanciarlo a proprio piacimento. Bòcc arriva a definire un individuo duro di comprendonio.
Bocé signfica invece bocciare inteso come colpire con la boccia, respingere, eliminare la boccia avversaria. Questo concetto viene poi utilizzato in modo figurato per indicare la non approvazione o la non promozione in altri contesti, inclusa la scuola. La bocciatura scolastica si riferisce al fallimento in un esame o alla non promozione di un anno scolastico. La sua origine è legata proprio al gioco delle bocce, dove una sfera viene respinta, colpita o eliminata da quella avversaria, quindi non si avvicina all’obiettivo (il pallino).
Quando uno studente non raggiunge i requisiti minimi di profitto richiesti per passare a un anno successivo o per superare un esame, si dice che è o ȓ’ha pijà ȓa bòcia (ha preso la “bocia”, è stato bocciato). Il termine quindi ha una connotazione negativa, sottolineando l’ineguatezza o l’insufficiente preparazione dello studente. Dare del bòcc a qualcuno, insomma, non è mai un complimento. «Ride bene chi ride a giugno»: con un’ammonizione del genere non si poteva che tornare zelanti alla concentrazione.
Paolo Tibaldi
