Ho accompagnato al cimitero una ragazza di 18 anni…

Lunedì 24 giugno ho accompagnato al cimitero una ragazza di 18 anni. Eravamo in tanti con gli occhi lucidi e il pensiero confuso. Una morte improvvisa, forse voluta, comunque assurda. Sul volto delle compagne di classe, nei loro sguardi smarriti, si legge anche il disagio nel trovarsi in quel luogo poco familiare perché abituate a frequentare posti dove la vita trabocca; ognuna ha in mano un fiore e una domanda nel cuore: perché? Le voci baritonali del celebrante ortodosso e del suo assistente hanno accompagnato il breve rito con un salmodiare malinconico di cui ho afferrato solo poche parole di radice latina, poi la salma è tornata alla terra. In molti hanno lanciato fiori, qualcuno una manciata di terra, altri hanno asciugato una lacrima, mentre i parenti più stretti hanno gridato lo strazio che è di tutti. Mi ha amareggiato che l’addetto al cimitero abbia messo in moto lo scavatore per ricoprire la bara, quasi che l’ultimo saluto a una persona non meriti il sudore di un uomo, ma forse i tempi impongono queste scelte. Con il cuore ancora pesante ho fatto il giro del porticato e ho pensato che cominciano a essere tanti quelli che riconosco negli ovali di ceramica. All’uscita conoscenti e parenti sono sciamati al loro quotidiano, mentre la famiglia si è stretta intorno al nipotino di pochi mesi, la vita continua. Sull’incrocio il traffico non si è accorto di nulla e scorre con la solita indifferente frenesia. Fermo sul cancello ho di fronte il flusso della quotidianità e dietro le spalle la quiete dell’eterno. Adriana è rimasta di là e, nonostante tutto, invidio un po’ la pace che la accompagnerà, ma che non è ancora per me, la vita continua.

 m.g.

Di fronte a tragedie come questa non ci sono parole da aggiungere, ma solo il silenzio e la preghiera. Per la persona che non è più su questa terra, per i suoi familiari. La morte di questa ragazza forse è stata voluta, non sta a noi giudicare. Voglio però partire da qui per due riflessioni generali, che prescindono dalla vicenda raccontata nella lettera. La prima riflessione riguarda il suicidio nella visione cristiana: è sempre stato considerato una violazione del quinto comandamento, “Non uccidere”, un atto contrario all’amore verso Dio e verso il prossimo. Perciò sempre moralmente inaccettabile. Tuttavia, poiché l’attaccamento alla vita è insito nella natura umana, si deve presumere che la responsabilità di chi lo compie possa non esserci o sia attenuata. Problemi psichici, angosce e timori, sofferenze personali che non conosciamo possono incidere fatalmente. I casi contrari, con oggettiva responsabilità, vanno dimostrati volta per volta. Per questo, oggi, non si negano più le esequie, anche perché sono fondamentalmente un’invocazione e un affidamento alla misericordia di Dio, che solo conosce il cuore di ciascuno, e una testimonianza della fede nella risurrezione. Una seconda riflessione sorge dalla constatazione, presente nella lettera, dell’indifferente frenesia del traffico all’uscita dal cimitero. Quasi un simbolo del vero problema: la solitudine, il senso di abbandono, la speranza che si affievolisce. Nella nostra società c’è troppa fretta, troppo individualismo, troppa superficialità. Le persone che ci stanno accanto e che magari soffrono in silenzio hanno bisogno della nostra compagnia, di affetto, vicinanza, comprensione, sostegno. Ecco la risposta agli interrogativi che si agitano dentro di noi di fronte a una morte così assurda. Partiamo da qui per infondere a chi ci sta accanto speranza e fiducia, pazienza e coraggio.

Banner Gazzetta d'Alba