STORIA
Domenica 10 settembre, alle 10, nell’area della caserma Govone, in corso Piave, sarà posta una corona di alloro per ricordare l’8 settembre e quanto successe ad Alba: il martirio di Luigi Rinaldi, prima vittima della Resistenza al nazifascismo e la fucilazione di quattro soldati uccisi nel corso dell’occupazione tedesca della caserma. Di seguito pubblichiamo stralci della testimonianza, raccolta da chi scrive nel 2014, di Desiderio Rinaldi. Nato a Diano nel 1924, in borgata Gaiole, era il figlio di Luigi, nel ’43 sotto le armi alla caserma Govone di Alba. È mancato pochi mesi dopo l’incontro.
«Nel marzo 1943 sono militare di leva a Mondovì e Savigliano, dopo pochi mesi ottengo una licenza per la mietitura del grano. A Ferragosto mi mandano al 43° reggimento fanteria. Arrivo in caserma il 20 agosto. C’erano tantissimi soldati: circa duemila, con molte tende in cortile. Incontro molti amici di Alba, solamente da Ricca eravamo in dieci militari. L’addestramento era molto ridotto. Un sergente maggiore ci insegnava a suonare, in un prato detto cimitero. Eravamo circa 12 elementi, io suonavo il clarinetto. Il poligono di tiro era confinante (…). Il 9 settembre il colonnello comandante ci chiama in cortile e dice “La guerra non è finita. Inizia adesso”. Ricordo cappelli in aria e urla di gioia. Ma il giorno dopo arrivano quattro tedeschi su autoblindo e due sidecar, si fermano davanti al portone, il colonnello consegna la pistola. Nei giorni seguenti tedeschi caricano su camion truppa e ufficiali per portarli via. Con altri mi nascondo in una stanza. Chiusi a chiave, zitti, zitti. Avevamo da mangiare solo una mela, per fortuna in un armadio troviamo qualche galletta. Uno di noi sa un po’ di tedesco e cerca di parlare con i militari sul portone. Ci dicono che ci portano in Germania».
«Nella stanza siamo rimasti in dieci e c’è totale incertezza sul da farsi. Non sento gli spari, sabato mattina 11 settembre: 150 metri più su, in corso Piave, avevano ucciso mio padre (…). Era venuto in Alba per avere notizie, portava con sé un salame e due pezzi di pane. Aveva saputo dell’armistizio da un coscritto di Milano. In corso Piave davanti al portone le SS sparano e colpiscono mio padre. Erano le ore 10 di sabato mattina. Di pomeriggio il carro funebre di Viglino porta la salma alla famiglia. Aveva dieci figli». La fuga è rocambolesca: «Il commilitone che sa il tedesco parla con i guardiani. Dice: “Ha avuto il padre ucciso”. Rispondono solo: “Vada, vada” (…). Incontro, appena fuori, un amico di Diano, Valotti. Mi dà una bici, scappo veloce…».
Lorenzo Tablino