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“S-ciavensa”: un termine piemontese usato in agricoltura

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ABITARE IL PIEMONTESE

S-ciavensa: Contratto agricolo tra proprietario terriero e bracciante che coltiva e custodisce l’altrui podere in cambio di alloggio e salario.

Fé S.Martìn, lo abbiamo già detto, significa anche traslocare poiché i contratti agricoli terminavano proprio la settimana dell’11 Novembre e si era costretti allo spostamento alla volta di nuove frontiere. Esploriamo alcuni di questi contratti a cui erano sottoposti i lavoratori di campagna.

S-ciavandari e i masoè, lo sappiamo tutti, non sono affatto la stessa cosa; ma entrambe le parole hanno dettato cognomi piemontesi tutt’ora propagati in Langa e Roero, vale a dire Schiavenza e Masoero.

Il contratto agrario di mezzadria si descrive da solo: il coltivatore, detto masoè, dovrebbe dividere a metà frutti e profitti con il proprietario del terreno su cui lavora. Vi è anche un proverbio colorito, che racconta senza troppi fronzoli il rapporto necessario tra padrone e mezzadro: trist col masoè ch’el padron o-i pissa ‘nso liamé (triste quel mezzadro, il cui padrone gli orina sul letamaio).

Per quanto riguarda la s-ciavensa (o s-ciavansa), invece, il discorso è un po’ differente. Parliamo sì di attività agricola ma questo sostantivo indica un contratto che veniva sottoposto a chi, magari con la propria famiglia, cura e custodisce l’altrui podere in cambio di alloggio e salario, magari anche in natura. Un accordo, insomma, che sancisce il pagamento tra il proprietario di un terreno e colui che andrà a lavorarglielo. Di conseguenza il cosiddetto s-ciavandari rappresenta sia il salariato agricolo, sia il bracciante che vive in cascina altrui e ne lavora il podere.

Sebbene questo termine possa condurci verso l’assonante schiavitù, l’etimo è invece latino medievale EX CLAVANDARIUM: colui che maneggia le chiavi o, comunque, ha in custodia un possedimento terriero. E in tempi più recenti, la custodia riguarda anche il prendersi cura, forzatamente, di un suolo pubblico, pena una sanzione.

A: “Ci sono delle schiavenze in giro da prendere.

F: “È proprio da lì che bisogna incominciare, con tanta pazienza e buona voglia.

A: “Sta’ tranquilla che è più probabile che il lavoro si spaventi di me, che io di lui.

Così, Beppe Fenoglio, fa dialogare Agostino e Fede nel racconto lungo La Malora, in una delle pagine più romantiche e struggenti del Novecento europeo. In questo dialogo sono presenti imprecisioni linguistiche, non certo dovute a sviste dell’autore, ma all’attenzione che ha avuto nel far parlare con coerenza personaggi illetterati, costretti all’attività rurale.

Paolo Tibaldi

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