La nostra esistenza migliora a passi da gigante sulla base della tecnologia applicata al campo biomedico: ne parla l’urologo albese Cesare Marco Scoffone
In medicina e chirurgia stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti sostanziali e rapidissimi, legati ai grandi progressi della ricerca e della tecnologia applicata in campo biomedico. Parlando del mio campo, l’urologia, va ricordato come sia gemmata poco più di un secolo fa dalla chirurgia generale, dedicandosi in modo specifico alle patologie dell’apparato genitourinario e assumendo una fisionomia che si è definita con l’andare del tempo.
L’urologia degli albori però non assomiglia neanche un po’ a quella del 2020. Per la cura di patologie oncologiche di rene, vescica e prostata, calcolosi renoureterali o ostruzioni prostatiche più o meno avanzate si è passati da interventi a cielo aperto, con ampie incisioni cutanee di accesso, anche molto invasivi, lunghi e rischiosi, con degenze postoperatorie interminabili spesso gravate da inevitabili complicanze, a procedure endoscopiche, laparoscopiche o robotiche, che riproducono i vecchi e pur sempre validi concetti chirurgici con un approccio mininvasivo e un netto miglioramento dei risultati clinici in termini di efficacia e sicurezza per il paziente. Io stesso, essendomi specializzato negli anni Novanta e nel contempo essendo stato assistente di chirurgia generale, ho potuto vivere di persona questi cambiamenti.
Una volta le novità in ambito chirurgico potevano consistere nel concepire un nuovo accesso, nell’identificare una caratteristica di anatomia utile per la gestione della procedura, nell’ideare manovre o tecniche intraoperatorie oppure un particolare strumento chirurgico, il tutto contrassegnato dai patronimici dei chirurghi innovatori.
La tecnica chirurgica a cielo aperto veniva tramandata sia attraverso libri illustrati e articoli, sia trasmessa dai maestri agli allievi, in sala operatoria con la pratica e nelle sale settorie di anatomia umana. È una “eredità” che anch’io ho cercato di raccogliere, sviluppando e mettendo a punto negli anni due tecniche: la Ecirs (Endoscopic combined intrarenal surgery) per il trattamento di calcolosi voluminose o complesse, e la Holep totally-en- bloc (enucleazione con laser dell’adenoma prostatico) per il trattamento di prostate ostruenti e sintomatiche di tutte le dimensioni, anche in pazienti in terapia con antiaggreganti. Sono interventi che pur non portando il mio nome sono legati alla mia figura professionale, soprattutto quando altri colleghi le imparano e poi le mettono in pratica con successo. In passato, con l’avvento dell’endoscopia, l’aspetto didattico ha un po’ sofferto.
Con l’impiego delle telecamere da endoscopi e di monitor sempre più sofisticati è stato invece possibile riprendere a condividere la gestione dell’intervento con altri colleghi in sala operatoria, per scoprire che l’anatomia a cielo aperto può anche essere un po’ diversa da quella endoscopica. Oggigiorno dobbiamo vederci bene e quindi saper impostare correttamente i sistemi ad alta definizione di cui disponiamo, per poterli sfruttare al meglio nel contesto in cui stiamo operando, così come per evitare di danneggiare i costosissimi endoscopi miniaturizzati o digitali.
Si deve imparare ogni giorno a fare i conti con la nuova tecnologia che ci troviamo ad adoperare. Non è più pensabile che un urologo inizi a eseguire, per esempio, un intervento endoscopico sulla prostata o sulla vescica usando un resettore bipolare a flusso continuo senza sapere come si montano correttamente i componenti che lo costituiscono, il tipo di irrigazione da usare o il settaggio di taglio e coagulazione adatti, aspetti che una volta erano considerati appannaggio dello strumentista. Ancora di più questo è vero quando ci troviamo ad adoperare i laser per il trattamento di calcoli, prostate o tumori uroteliali di vescica e alto apparato. Il laser ad olmio piuttosto che quello a tulio o il laser “verde” sono armi che possono essere molto efficaci se adoperate correttamente, ma anche molto pericolose se impiegate senza sapere alla perfezione come farlo, perché possono perforare le sottili pareti di vescica o uretere, creare i presupposti per importanti disturbi minzionali post-intervento, rovinare gli endoscopi attraverso cui vengono usati o bruciare i campioni utili per l’esame istologico.
Lo stesso vale in laparoscopia-chirurgia robotica: bisogna conoscere bene la gestione dello pneumoperitoneo, il tipo di illuminazione e visione intraoperatoria, il funzionamento dei vari strumenti, saper scegliere il tipo di emostasi (con punti di sutura o devices da taglio e sintesi), funzionamento e manutenzione del robot, e così via. Nella mia esperienza ormai trentennale ho imparato che per essere un bravo chirurgo bisogna essere anche un po’ ingegnere, tecnico e strumentista, oltre che medico a tutto tondo, e che non si può più prescindere da un aggiornamento continuo, dalla costante valutazione dei propri risultati per poterli eventualmente migliorare, dal conoscere nel dettaglio tutto ciò che si adopera.
È fondamentale essere circondati da una squadra in gamba: colleghi, infermieri di sala operatoria e di reparto, sanitari di altre specialità, in grado di svolgere la loro parte al meglio. Per curare il paziente nella sua interezza, e non solo la patologia. L’urologo 2.0 deve costantemente migliorare se stesso, ma anche pensare a insegnare quanto acquisito a colleghi e giovani allievi, trasmettendo tecnica, tecnologia, curiosità, capacità d’innovazione e passione.
Cesare Marco Scoffone