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Don Domenico: celebro la Messa e cerco di aiutare

VERDUNO La speranza può avere mille sfumature, anche gli occhi chiari di un sacerdote. Quelli di don Domenico Bertorello – direttore dell’Ufficio diocesano e incaricato per la Pastorale degli anziani e della salute, assistente spirituale presso l’ospedale di Verduno, oltre che parroco di Verduno e Rivalta di La Morra – nei mesi scorsi sono arrivati all’anima di molte persone che si accingevano all’ultimo viaggio, hanno dato conforto a medici e infermieri stremati, fatto riscoprire la luce della fede a malati in lotta contro il virus.

Da quanto tempo è cappellano a Verduno, don Bertorello?

«Da luglio, appena l’ospedale ha aperto. In precedenza mi ero formato per tre anni all’istituto Humanitas di Rozzano: mentre studiavo a Milano, mi è stato chiesto di dare una mano al cappellano. Ho accettato, mettendomi in gioco, e, in seguito, tornato ad Alba, sono diventato volontario accanto al cappellano don Dino. Nel 2014 il vescovo Lanzetti mi ha nominato cappellano al San Lazzaro. Da sei anni sono un dipendente dell’Asl Cn2».

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Don Domenico Bertorello

Immagino che la sua capacità sia stata messa a dura prova durante la pandemia.

«Si è trattato di un’esperienza drammatica: nei primi mesi del 2020, a marzo-maggio, noi cappellani siamo stati esclusi dal servizio e invitati dalla direzione sanitaria a non muoverci tra i reparti, per non essere vettori del virus: è accaduto ad Alba come in tutta Italia. Per questo, mi recavo in corsia solo su richiesta e non nelle aree espressamente dedicate al coronavirus. È stato molto faticoso questo periodo al San Lazzaro, poiché non esistevano, in pratica, locali ”puliti”. Ero, però, sempre presente in ospedale e celebravo la Messa per il personale, ogni mattina; inoltre, cercavo di trovarmi nei corridoi nei momenti del cambio dei turni per salutare gli operatori, parlare, incoraggiarli, dare loro qualche conforto».

Come stavano?

«Erano molto affranti, preoccupati, impauriti. Oltre al lavoro, davvero immane, il loro timore più grande era per i familiari. Temevano di portare il contagio a casa. Nella prima fase pandemica e anche nel corso della seconda ondata, quando eravamo già a Verduno, abbiamo riscontrato gravi problemi psicologici tra i sanitari. L’Asl ha attivato appositi sportelli di supporto, ma chi deve restare dieci-dodici ore in corsia, con tutto il carico emotivo e fisico che il Covid-19 comporta, non impegna altro tempo per andare dallo psicologo».

Quali sono, adesso, i problemi?

«Molte persone mostrano gravi disturbi post traumatici da stress che sembrano emergere sempre di più. La responsabile di un sindacato mi ha spiegato che la difficile situazione ricade anche sui reparti ordinari: il coronavirus ha costretto a spostare personale per coprire tutte le esigenze. Inoltre, sebbene Verduno sia davvero un nosocomio all’avanguardia, ha spazi enormi: pensi che chi deve muoversi nei reparti percorre almeno 5-8 chilometri al giorno».

Ci racconti il reparto Covid-19.

«Gli 800 cappellani d’Italia solo a fine novembre hanno avuto la possibilità di entrare nelle aree dedicate al coronavirus. A Verduno abbiamo avuto qualche difficoltà iniziale, poi risolta. Quasi ogni giorno ci chiama qualche ammalato. Spesso si va per una persona e si portano i sacramenti a molte altre; si parla con tutti i ricoverati: molti hanno il desiderio di uno scambio profondo. Nei mesi scorsi i ricoveri sono arrivati a 170, 10 in terapia intensiva. Ora la situazione va migliorando».

A Verduno un carnevale di tristezza

Che cosa accade quando un ammalato Covid-19 chiama il sacerdote, don Bertorello?

«Ci si veste in modo adeguato, proteggendosi con tute, mascherine e tutto l’occorrente per evitare il virus, poi si entra in reparto, dove ci si pone all’ascolto della persona. A volte restiamo ore con loro, se necessario. Preciso che lavoro da tempo, proficuamente, con il diacono Giorgio Fissore».

Don Domenico: celebro la Messa e cerco di aiutare
Don Domenico Bertorello, cappellano di Verduno, e il diacono Giorgio Fissore nella cappella dell’ospedale.

Che cosa chiedono i degenti?

«Una parola di speranza e di pregare insieme. I pazienti attendono l’Eucaristia come un momento di forza. Sono soli, come lo sono gli operatori. È un carnevale di tristezza: così bardate, non si possono riconoscere le persone, se non attraverso gli occhi».

Gli operatori sanitari hanno mostrato tutta la loro forza. Come ci sono riusciti?

«Sì, i medici e tutto il personale hanno avuto un carico di lavoro devastante. I nostri sanitari forse non vanno chiamati eroi, ma lo sono. Per fortuna, ora sembra stiano entrando forze nuove, medici, infermieri e operatori socioassistenziali».

Ha accompagnato qualcuno alla morte?

«Purtroppo, sì. Ci sono stati diversi casi, anche nei reparti ordinari. Bisogna ricordare che l’Unzione degli infermi è un sacramento destinato a chi vuole una benedizione (“Ci permette di toccare con mano la compassione di Dio per l’uomo”, ha spiegato papa Francesco). Ma, spesso, per un fraintendimento, veniamo chiamati troppo tardi, quando la persona non è più cosciente. Ricordo una malata che conoscevo, ancora semicosciente; l’ho chiamata per nome e mi è parso mi riconoscesse. Sono i medici – che spesso si fermano con noi, accanto al paziente – ad avvertirci: per sensibilità religiosa o perché la famiglia ha chiesto di farlo».

Ha avuto momenti di paura?

«Non del contagio. Per fortuna sto bene. Ma la situazione è davvero pesante; non si sa mai a che cosa si deve andare incontro. Spesso temo di trovarmi di fronte a domande a cui non si può rispondere. Devo dire che il diacono Giorgio mi aiuta molto, anche se non può portare il sacramento».

Gli operatori stessi sono stati chiamati a dare l’ultimo saluto cristiano a chi se ne andava solo.

«Molti sono stati accompagnati con una croce in fronte. Ad Alba abbiamo avuto una bellissima esperienza con un infermiere, che è anche diacono. Ricordo poi che a Pasqua, quando non si poteva ancora entrare in reparto, ho consegnato l’Eucaristia, segno di salvezza, a un medico dell’Esercito e a un infermiere. Sono stati loro a far pregare le persone, mentre io seguivo in diretta telefonica».

m.g.o.

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