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Abitare il piemontese: la parola della settimana è Rusché

Tibaldi Paolo attore

RUSCHÉ Lavorare duramente, abbondare, faticare; Scortecciare, sarchiare il terreno.

Il mese di ottobre, quest’anno è dedicato ai termini piemontesi che raccontano il lavoro. Ne abbiamo esplorati nei mesi e anni scorsi, ma oggi è la volta di una declinazione decisamente pragmatica e verace: rusché. Se dunque la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, lo è anche la lingua e la società piemontese, che ha interpretato bene questo valore, specie in luoghi e periodi impietosi. Il ruscon, infatti, è un lavoratore incallito, uno sgobbone. Una bella sfumatura di rusché, che oggigiorno significa lavorare duramente, abbondare, faticare senza paura, senza risparmiarsi fisicamente o mentalmente, ce la descrive lo scrittore Beppe Fenoglio, facendo dichiarare a un suo personaggio: Sta’ tranquilla che è più facile che il lavoro si spaventi di me che io di lui. Così siamo usciti da quella Malora, con quel senso di responsabilità e tutto quel rusché che ne consegue.

Chi incarna questo verbo certamente conosce il proverbio: Nossgnoȓ o pàga tàrd ma o pàga làȓgh (il Signore paga tardi ma, quando pagherà, sarà generoso). Questo prescinde dalla fede religiosa, poiché la ricompensa attesa, può benissimo essere terrena e materiale.

Da dove arriva rusché? La rusca è la corteccia, la polvere per la concia. Pare che l’etimo sia latino medievale, con il verbo ruscare (scorzare, togliere la corteccia, scortecciare; lavori primordiali e faticosi). Con rusché, qualcuno intende anche la lavorazione minuziosa del terreno: anch’essa richiede forza e fatica. Per estensione di significato “faticare”, rusché è diffuso nelle parlate dell’Italia settentrionale e dal 1956 è anche una parola italiana a tutti gli effetti, proprio per influenza piemontese: “ruscare”. Italiani (e in questo caso piemontesi), abituati a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo: è la celebre frase dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla che ben sintetizza i due ingredienti storici del successo del lavoro. Le cose belle (prodotti di qualità) e i campanili (territori e distretti).

Paolo Tibaldi

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