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C’è un’Alba che lavora a sei euro l’ora in nero (REPORTAGE)

Alba: dopo il progetto pilota albese, l’associazione nazionale Città del vino porta la vendemmia turistica nei territori enologici italiani 1

LE STORIE Alba è una città internazionale. E, fino a domani, lo sarà a pieno titolo. Martedì scorso si è tenuta la sesta edizione della Global conference on wine tourism, voluta dall’Organizzazione mondiale del turismo. Per tutta la giornata, il teatro Sociale accoglie autorità ed esperti provenienti da tutto il mondo, per confrontarsi sul presente e sulle prospettive del turismo legato al mondo del vino, un indotto che da solo vale 2,5 miliardi di euro e che ogni anno sposta 14 milioni di persone.

È evidente che i territori con una vocazione enogastronomica sono sempre più attrattivi: lo dimostrano Langhe, Monferrato e Roero, diventati mete consolidate di enoturisti di lusso.

Le colline Unesco parlano inglese e tedesco, fanno affari oltreoceano e attirano persone da ogni dove. È un volto dell’albesità, la capacità di farcela, lavorando duramente, convintamente, sempre. Ma c’è anche un altro volto, assai meno radioso, eppure da mettere in luce. Chi sono gli uomini che popolano le colline nella stagione del lavoro? Quali sono i visi degli stagionali? Sappiamo che, senza di loro, non potremmo mantenere il nostro attuale tenore di vita? Li trattiamo in modo adeguato? Gazzetta d’Alba da tempo racconta le loro povere esistenze. Per incontrarli, è sufficiente camminare per le vie che circondano il centro di Alba, nel tardo pomeriggio. Sono africani, a piedi o in bicicletta, camminano veloce, con lo zaino in spalla. Alcuni si trovano alla fermata dell’autobus: hanno scarponi sporchi di terra e magliette sudate. Sono gli “invisibili” che lavorano i vigneti, appena tornati dalla vendemmia. Non è facile avvicinarli e tanto meno avere informazioni precise sulle loro condizioni di lavoro. A prevalere è ancora quasi sempre la paura di perdere l’occupazione.

Foto di repertorio.

Qualcuno, però, tra molti silenzi, sceglie di raccontare. «Ho appena finito la giornata in vigna», dice un ragazzo sui trent’anni, con gli occhi stanchi. «Vado a comprarmi qualcosa da mangiare e una bottiglia d’acqua, prima di tornare a casa». Chiediamo qualche informazione in più: «Lavoro tutti i giorni per una cooperativa, per nove o dieci ore, con una trentina di compagni. Guadagno sei euro all’ora, ma il mio contratto finirà a ottobre. La mia non è una situazione stabile: non è fissato un guadagno mensile, perché l’impegno non è garantito». Questo ragazzo è riuscito a trovare un alloggio insieme a due amici. «Uno di loro lavora in fabbrica e vive certamente meglio di me», precisa, per poi salire in bicicletta e andarsene.

Di fronte al cimitero, sempre alla stessa ora, si notano altri braccianti di origine africana. Arriva di colpo un’auto, scendono quattro persone: salutano, recuperano gli zaini dal baule e siedono sulla prima panchina libera. Sono tutti nigeriani, ma anche questa volta solo uno è disposto a parlare. «Anche noi lavoriamo sulle colline, ma arriviamo da Torino: ogni giorno prendiamo il pullman per Alba e la sera torniamo a casa», dice un ragazzo. «Quanto guadagno? Tra cinque e sei euro l’ora: è poco, ma a Torino non si trova niente da fare. Ci accontentiamo». Quando gli chiediamo se ha un contratto, diventa sospettoso e preferisce chiudere il discorso.

Un altro punto nevralgico rimane la stazione. Verso le 18.30, i braccianti africani si muovono tra la folla di pendolari e turisti. Le auto di alcune cooperative sono ferme sul piazzale e forse per questo è difficile trovare qualcuno disposto a raccontare. Fino a quando incontriamo un ragazzo che parla solo inglese: la sua terra è il Gambia, è sposato e ha un figlio di otto anni, che non vede da molto tempo. La sua storia è quella di molti migranti: arrivato in Italia su un barcone, si è spostato al Nord. A Bra ha lavorato per anni per una cooperativa. Poi, il contratto è terminato e ha dovuto lasciare anche la casa. La vendemmia gli è sembrata l’occasione giusta: «Il mio capo? L’ho conosciuto alla stazione. Guadagno cinque euro all’ora, ma senza contratto». È stato reclutato più di un mese fa, da quando è iniziata la stagione della raccolta, ma dice di non essere stato ancora pagato. Mentre camminiamo con lui verso via Pola, dove si trova il Centro di prima accoglienza della Caritas, apre una bottiglietta d’acqua. «L’ho comprata poco fa: il padrone mi fa pagare anche il cibo e l’acqua», precisa. La sua è certamente un’Alba molto diversa rispetto a quella che conosciamo: prima di approdare da don Gigi Alessandria, per tre settimane, ha dormito all’addiaccio, su una panchina, di fronte ai binari. «Una volta sono arrivati due poliziotti, i quali mi hanno detto che non potevo rimanere lì: quando se ne sono andati, sono rimasto».

Ha vissuto così questo ragazzo, mangiando e dormendo sulla stessa panchina, cambiandosi dietro a una siepe, senza mai farsi una doccia. «Al capo non interessa dove dormo. Gli interessa solo che non parli», dice ancora, quasi tra sé.

Francesca Pinaffo

Dal centro di accoglienza Caritas

Il Centro di accoglienza della Caritas di via Pola, ad Alba, è un altro mondo, perché la presenza dei volontari e degli operatori cerca di contrastare lo sfruttamento e di creare maggiore coscienza dei propri diritti tra gli stessi braccianti, oltre ad assicurare loro un tetto, pasti e servizi accoglienti. Ma i migranti che vengono ospitati sono pochi rispetto alla mole del fenomeno che si stima sulle colline. Per questo si stanno muovendo le Forze dell’ordine e le associazioni di volontari.

«Oggi alla stazione un capo mi ha offerto 5 euro l’ora, se volevo lavorare: ho risposto che io sono un grande lavoratore e che non si può vivere così. Lui ha ha ribattuto che le condizioni sono quelle e che ne può trovare mille come me», racconta un ragazzo, con rabbia. E anche con una punta di orgoglio, perché lui ha saputo dire di no.

Il progetto di accoglienza di via Pola quest’anno è l’esito della collaborazione della Caritas e del Comune di Alba: un altro obiettivo è favorire l’incontro tra domanda e offerta, nel segno della legalità. Conosciamo Hamadou e Soumalia, che arrivano rispettivamente dal Gambia e dal Mali. Fanno parte del gruppo assunto dal viticoltore Michele Flori, che ha contattato il Comune e si è reso disponibile a contrattualizzare direttamente un gruppo di braccianti, applicando tutto ciò che prevede la normativa di settore. Come spiegano i volontari, «lo stipendio base è di sette euro e mezzo all’ora, sono già stati pagati per il mese di agosto, del tutto in regola». E ancora: «L’acqua e il cibo sono forniti gratuitamente e hanno diritto a un extra di 10 euro al giorno per le mansioni più impegnative, oltre a festivi e straordinari garantiti».

Mentre lo dicono, si stupiscono. Perché oggi, nell’Albese, ciò che dovrebbe essere la regola per molti lavoratori del vino è diventato soltanto un miraggio.  f.p.

Petrini ai produttori: non chiudete gli occhi di fronte allo sfruttamento

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Carlo Petrini

IL COLLOQUIO L’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto) e il Governo italiano, con numerosi partner, tra cui la Regione Piemonte e l’Atl Langhe, Monferrato, Roero, ha organizzato la sesta Conferenza mondiale sul turismo del vino tra il 19 e il 21 settembre ad Alba. Una scelta di grande rilievo e di pieno riconoscimento per le colline Unesco, ma anche di notevole responsabilità per tutta l’area.

È proprio l’agenzia specializzata delle Nazioni unite a spiegare che la «conferenza rappresenta un’opportunità unica per gli esperti di tutto il settore dell’enoturismo per lavorare insieme in modo da trovare soluzioni concrete atte a ricostruire meglio e rendere il turismo un abilitatore del cammino verso un ambiente più sostenibile e inclusivo e un futuro resiliente per le comunità rurali».

Tra i primi a relazionare martedì scorso, al Sociale di Alba, tra profili di assoluto rilievo internazionale, c’è Carlo Petrini, braidese, fondatore di Slow food, fautore della prima ora di questi argomenti.

«In primo luogo», ci ha anticipato sabato scorso Petrini, «qualsiasi realtà collegata al turismo enologico deve fare memoria della storia del territorio. Sulle colline dell’Albese è stata creata una realtà straordinaria, ma dubito che molti giovani, produttori e no, abbiano piena coscienza del punto da cui si è partiti, passando in una settantina d’anni dalla terra della malora alla situazione di benessere odierno. In questo momento va, inoltre, sottolineato uno scollamento evidente tra il mondo del vino e quello alimentare. Fino a ieri il vino faceva parte dell’alimentazione umana e aveva una connessione diretta con l’agricoltura. Oggi la produzione enologica viene premiata da una forte domanda internazionale che rende i produttori protagonisti, ma privi di collegamento con il mondo rurale circostante. Dimenticare il punto di partenza e accettare di sganciare il vino dal sistema vuole dire compiere un grave errore culturale. Infine, un comparto così ricco – e non dimentichiamo che fruisce ancora delle agevolazioni previste per l’agricoltura, che stridono con i prezzi con cui il vino viene venduto – deve riconoscere l’urgenza di pratiche virtuose indifferibili, a partire dal passaggio al biologico. La riqualificazione produttiva deve realizzarsi nel quadro delle normative esistenti e nel pieno rispetto delle persone che vi operano. Per questo, se esistono, come pare evidente, sacche di sfruttamento, queste devono essere risolte. Non è sufficiente chiudere gli occhi. Di questo tema devono farsi carico i numerosi produttori onesti, anche per evitare di essere ingiustamente screditati».

 Maria Grazia Olivero

L’enoturismo deve essere rispettoso dell’ambiente e delle persone

Gli "invisibili" sono ritornati in via Pola 1L’INTERVISTA Parliamo del fenomeno dello sfruttamento del lavoro nei vigneti Unesco con Walter Boffa, che fa parte della comunità Laudato si’-Gazzetta d’Alba, il cui referente è Giovanni Montani. L’associazione è molto attiva sul tema e partecipa al tavolo di confronto sul caporalato avviato dal Comune di Alba.

Boffa, perché il fenomeno del caporalato emerso nella nostra area viene definito atipico?

«Perché si tratta di un caporalato con un profilo “imprenditoriale”, molto strutturato e organizzato. Ha come protagonisti in gran parte persone originarie dell’Europa orientale, che in passato reclutavano connazionali e oggi soprattutto migranti africani. Si tratta di un fenomeno cresciuto all’ombra di molte aziende e nascosto tra le file delle cooperative senza terra. Purtroppo, è inserito profondamente nel tessuto agricolo dell’Albese. E, per moltissimi stranieri, rappresenta ancora il principale canale di accesso al mondo del lavoro in campagna».

Se guardiamo ai braccianti, quali sono le loro storie?

«Parliamo di vicende umane molto travagliate, che ne fanno le vittime ideali per i potenziali sfruttatori. Vengono spesso definiti “invisibili”, ma in realtà ogni giorno sono bene evidenti in città e nei paesi, all’alba e al tramonto, oltre che tra i filari delle vigne, dove sono diventati presenze imprescindibili. I nostri vini pregiati sono prodotti grazie a loro, ma a loro non vengono garantiti diritti, inclusione o semplicemente dignità».

Come valuta il sistema di accoglienza sul nostro territorio?

«Ci sono due diversi canali: da un lato l’accoglienza ufficiale, promossa dal Comune e dalle associazioni, del tutto diversa da quella fornita dalle cooperative e dalle imprese di intermediazione di manodopera. Spesso le condizioni di questi ultimi lavoratori sfuggono a ogni controllo: è difficile anche solo avvicinarsi alle cascine in cui vivono e sappiamo che sono a forte rischio di sfruttamento. Papa Francesco ha parlato di “nuovi schiavi”: l’indagine culminata mesi fa con due arresti nell’Albese ha di fatto confermato questa visione».

Come si possono cambiare le cose?

«Servono controlli, presidio del territorio e contrasto dell’illegalità, che oggi sono ancora insufficienti, visto quanto il fenomeno è sottovalutato. Bisogna promuovere l’assunzione diretta dei lavoratori, sia strutturali che stagionali: esistono molte forme contrattuali diverse, che possono rispondere alle esigenze delle aziende. A un livello ancora più ampio, bisogna lavorare sulla diffusione di una cultura che metta al centro il rispetto delle persone, qualunque sia il colore della loro pelle. Proprio per parlare di questi temi, avevamo chiesto di intervenire nell’ambito del Forum mondiale dell’enoturismo, insieme a realtà come Anolf-Cisl, Italia nostra e altre associazioni del territorio. Purtroppo, non ci è stata data questa opportunità. Ci sarebbe piaciuto dare voce a un giovane lavoratore africano, che lo scorso anno si era accampato lungo il Tanaro. Volevamo accendere i riflettori sul tema della biodiversità, sempre più a rischio a causa della monocoltura, che ha già intaccato la bassa Langa e che ora si sta espandendo anche nell’alta Langa. L’enoturismo si basa sulla cultura del vino, che dovrebbe essere sostenibile a trecentosessanta gradi, cioè rispettosa dell’ambiente e prima di tutto dei diritti delle persone». f.p.

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