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Sheida racconta l’Iran agli albesi

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Sheida Boromand durante la serata di presentazione al Cpia

LA STORIA «Non chiamatela protesta, ma rivoluzione». Così l’attivista iraniana Sheida Boromand ha raccontato, durante un incontro organizzato nei giorni scorsi dal Centro provinciale di istruzione degli adulti di Alba (dove ha studiato italiano), la rivolta che, da oltre un mese, interessa il suo Paese, governato da 44 anni dalla teocrazia islamica degli Ayatollah.

Ventinove anni, laureata in psicologia, ha lasciato l’Iran quasi 5 anni fa e da quel momento vive in Italia: quando le donne hanno deciso di ribellarsi al regime religioso, Sheida ha scelto di attivarsi sui social per raccontare i fatti. Il 13 settembre Mahsa Amini, 22 anni, è stata arrestata a Teheran dalla Polizia religiosa, per aver indossato lo hijab (il velo imposto alle donne) allentato: alcuni giorni dopo è morta, secondo il Governo nazionale, per un presunto arresto cardiaco, ma sul suo corpo erano evidenti i segni di un pestaggio. Niloofar Hamedi, giornalista iraniana di un quotidiano progressista, che aveva scritto della vicenda, è scomparsa, come il suo avvocato. Da quel momento, le violenze e le dimostrazioni sono dilagate, con quasi mille arresti nel Nord-ovest, solo negli ultimi dieci giorni, mentre i morti sarebbero circa quattrocento. Abbiamo raggiunto Sheila per alcune domande.

Come sta vivendo ciò che accade nel suo Paese?

«Una parte di me si trova in Iran e l’altra metà è qui. È molto difficile essere presente a pieno nella mia quotidianità: se un iraniano sceglie di parlare e fare informazione, si espone a rischi, a prescindere dal Paese in cui si trova. Alcuni attivisti sono stati minacciati, anche se vivono in America e in Francia. Quando ho scelto di attivarmi sui social, ho accettato un prezzo implicito: non poter più tornare in Iran, dove si trova ancora una parte della mia famiglia. Mi sembra poca cosa rispetto all’enorme coraggio che stanno dimostrando migliaia e migliaia di donne in prima linea nel mio Paese».

In Europa si parla del-l’Iran dalla morte di Mahsa Amini, ma come è maturata questa rivoluzione?

«Un detto iraniano esprime bene ciò che sta accadendo: “avete tagliato le gambe alle madri, ma non avete tenuto conto delle ali cresciute sulle spalle delle figlie”. La morte di Mahsa ha innescato il fuoco nascosto sotto la cenere, portando a una rivoluzione che è prima di tutto delle donne. Dal ’79, anno d’arrivo al potere di Khomeini e l’inizio del regime repressivo, ci sono state altre rivolte nelle quali gli uomini erano in prima linea. Questa volta è il contrario: grazie allo studio e all’apertura verso il mondo, le iraniane hanno realizzato che non è più accettabile vivere senza diritti. Social come Instagram, hanno aiutato molto: le piattaforme sono bloccate, ma qualcosa è filtrato ugualmente».

Com’era la tua vita sotto il regime teocratico?

«Il 2009 ha segnato una svolta: a dicembre, gli iraniani sono scesi in piazza per protestare contro il Governo. La rivolta è costata più di 1.500 morti e migliaia di scomparsi: ricordo il grande caos, il sangue per strada e la paura. Ma, a differenza delle proteste precedenti, ero adolescente e mi rendevo pienamente conto di ciò che stava accadendo. Da bambina, per me e le mie coetanee, la questione della libertà non si poneva neppure: quella era la nostra realtà. Una volta cresciuta, anche grazie alla mia famiglia, ho iniziato a guardare la mia condizione da un altro punto di vista. Lo studio è stato molto importante: ho apprezzato il periodo dell’università, oggi mi rendo conto di quanto fosse assurdo studiare, accanto alla psicologia, la religione estremista islamica. Io e le mie amiche indossavamo lo hijab allentato come Mahsa: avrei potuto essere arrestata dalla Polizia morale, proprio come lei. Anche dopo aver lasciato l’Iran, si continua a convivere con il regime: mi sono sposata qui, con un ragazzo italiano, ma era richiesto il nullaosta iraniano. Ho vissuto sette mesi difficili: la questione è complessa e serve il matrimonio islamico. Alcuni Paesi hanno iniziato un percorso per superare l’impasse, per l’Italia non è così».

Che cosa può fare l’Occidente per aiutare l’Iran?

«In ballo ci sono aspetti politici molto complessi. Ciò che ha tolto la libertà all’Iran è la sua ricchezza più grande: il petrolio. La religione è un veicolo, lo dimostra il fatto che si stanno ribellando anche molti musulmani credenti. L’Occidente e l’America possono fare molto: fermare i negoziati con il Governo, inserire il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (i Pasdaran, ndr) nella lista internazionale dei gruppi terroristici, concedere agli iraniani l’accesso a Internet e ascoltare la voce della rivoluzione, perché oggi il popolo è determinato nell’opporsi al regime. Le donne hanno portato alla luce ciò che accade da decenni, ma di cui il mondo finora non ha parlato».

 Francesca Pinaffo

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