La sala per dialogare con Cesare Pavese

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La Sala dei dialoghi della fondazione Pavese

SANTO STEFANO BELBO Mantenere vivo il dialogo tra i lettori e Cesare Pavese creando uno spazio interattivo. È l’obiettivo della nuova Sala dei dialoghi, inaugurata sabato scorso nel museo pavesiano di Santo Stefano Belbo nel corso del premio letterario dedicato allo scrittore.

Un altro tassello che si aggiunge ai lavori di riqualificazione dell’Amministrazione comunale con il piano di sviluppo Un paese ci vuole. Oltre al restyling, affidato a Cirino Leotta e finanziato in parte grazie alla fondazione Crt, il museo si arricchisce di nuovi fondi librari delle famiglie torinesi di Oreste Molina (responsabile della tipografia Einaudi e grande amico di Pavese) e Giuseppe Vaudagna (compagno di liceo al Massimo D’Azeglio).

Pierluigi Vaccaneo, direttore della fondazione Pavese, racconta la sala dedicata alla memoria di Maurizio Cossa, pronipote dello scrittore morto a febbraio: «Il turista, il lettore o l’appassionato potrà trovare contenuti che cambiano mensilmente. Sulla sinistra c’è una libreria dove esporremo i nuovi inediti, al centro I dialoghi con Leucò presenti sul comodino alla morte, mentre al fondo un grande muro luminoso (led wall) con contenuti video e audio: in futuro non sarà solo un proiettore ma un elemento di interazione con l’utente tramite l’uso della tecnologia».

La sindaca Laura Capra racconta il progetto: «Le nuove donazioni hanno imposto al Comune di creare uno spazio dedicato, al fine non solo di custodire materiali importanti e deteriorabili, ma di poterli rendere fruibili al pubblico di appassionati e studiosi».

Da Giuseppe Vaudagna arrivano lettere, articoli di giornale, appuntati e sottolineati, bozze di racconti e cartoline che i suoi discendenti hanno donato con la volontà che rimanessero in Piemonte, nonostante le richieste del Museo del Novecento di Roma. Dal fondo di Oreste Molina sono invece giunti trenta libri che il tipografo mandò a Pavese soprattutto durante il periodo del confino (anni Trenta): testi sui quali sono riportati appunti, segnature, commenti inediti che documentano il lavoro di traduttore dall’inglese.

La sala per dialogare con Cesare Pavese
Iuri Moscardi

Iuri Moscardi, dottorando alla City University di New York e vincitore del premio Pavese nel 2012 per una tesi sull’Antologia di Spoon river, sta curando una pubblicazione scientifica sui manoscritti del fondo Molina. Spiega: «Sono tre i libri usati dallo scrittore per tradurre, gli altri volumi sono di studio: Dedalus di Joyce, Autobiografia di Alice B. di Gertrude Stein e David Copperfield di Charles Dickens. Con questi si può vedere in negativo un approccio a più fasi, dove a volte sono appuntati passi su cui tornare, in altri viene abbozzata una traduzione».

Il materiale, mai reso disponibile prima, risponde ai dubbi della critica, che si chiedeva perché alcuni autori inglesi o americani non avessero riscontro nella biblioteca dello scrittore. «Ogni volta si conferma la serietà di Pavese nel suo lavoro, oltre al genio e alla brillantezza se si considera il contesto in cui viveva. C’erano pochi dizionari, tutti modellati sull’inglese ottocentesco, non certo sullo slang americano, perciò spesso ricorreva ad amici e conoscenze all’estero», dice Moscardi. Interessante è anche il lavoro di traduzione per il pubblico italiano, poco avvezzo alla letteratura inglese, anche a causa del fascismo: «In David Copperfield ci sono soluzioni fantastiche: in un passo si cita il personaggio shakespeariano di Robin Starveling, un folletto che i lettori italiani non conoscevano. Perciò Pavese cerca un riferimento simile: pensa alla Commedia dell’arte e lo traduce con lo Zanni (Arlecchino), più familiare».

 Lorenzo Germano

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